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domenica 3 aprile 2011

Ciò che manca è più presente che mai


Due libri in una volta sola. Pontiggia è uno scrittore che ho amato alla follia e questi due libri sono tra i mattoni portanti della mia bottega. La morte in banca è la cronaca dell'esperienza, vera, dello scrittore come impiegato bancario. All'epoca, e non a torto, un impiego di quel tipo era il lavoro più sicuro a cui si potesse aspirare. Ma al giovane Pontiggia le sicurezze non bastavano. Cronaca spietata e leggera al contempo di un lavoro che lo stava uccidendo, levandogli l'aria e la fantasia. I piccoli rituali d'ufficio così alienanti e pericolosi nel loro potere anestetizzanti. Il secondo libro La grande sera per me è un gioiello. Il protagonista è un assente, un uomo che sparisce senza lasciare traccia. Di lui sappiamo solo quello che ci viene raccontato da amici e parenti. Eppure la voce di questa assenza è la più potente di tutto il testo. Se non conoscete questo scrittore, ed è probabile perché non credo siano molte le librerie in cui viene consigliato, io vi invito a leggerlo. Quest'ultimo testo mi ha ricordato un film che credo sia stato visto da dieci persone in tutto: Codice privato. Una sorpendente Ornella Muti che, in questa pellicola, era di una bravura sorprendente. La storia si svolge in una sola stanza e lei è la sola protagonista. E anche qui ci viene raccontata la storia di un uomo che sparisce, di una storia d'amore che si interrompe. Lei cerca, attraverso lettere  e messaggi telefonici, di ricostruire il perché e di continuare un dialogo con chi è assente. Se avete la possibilità di rivolgervi a una videoteca degna di questo nome andate a prendervelo e guardatevelo. E leggete Pontiggia

1 commento:

  1. Mi scontro ogni giorno con l’estenuante monotonia del lavoro d’ufficio. Ed ogni giorno vengo travolto dalla banalità dei discorsi, dai vuoti rituali che sanno di stantio, dal linguaggio da topi di scrivania.
    E a rendere definitivo lo scoramento si aggiunge la mentalità piatta e conformista, impastata di trito e polveroso conservatorismo.
    Ma ciò che mi lascia davvero sbigottito è la perentoria attribuzione di “senso” che si vuole dare a questa grottesca dimensione.
    Certo, siamo grandi e responsabili, sappiamo bene che una buona dose di compromesso è connaturata alla vita. Sappiamo che in qualche modo lavorare si deve.
    Ma il conclamato obnubilamento delle menti non si accontenta di questo bagno di realismo: pretende di affermare la “naturalezza” dell’impiego, la sua natura di motore di socialità e soddisfazione.
    E questo mi rende davvero triste e rabbioso; penso a quale piattezza esistenziale possa rendere stimolante e desiderabile la grigia dimensione del passacarte.
    Di mio continuo a considerare il lavoro un male necessario, ma non tramonta mai in me l’idea che la vita vera sia altrove.

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