Cerca nel blog

martedì 20 aprile 2010

la vendita è donna

Mentre raccolgo materiale per la lezione che terrò a Cremona sulla scrittura femminile, ripropongo un mio articolo sulla vendita.

LA VENDITA E’ DONNA. IL LINGUAGGIO DELL’ACCOGLIENZA NEGLI ESERCIZI COMMERCIALI. PICCOLE E BREVI CONSIDERAZIONI

Qualche lettura e sei anni di analisi mi hanno insegnato che non bisognerebbe mai iniziare un discorso con una negazione. Ma il linguaggio è una creatura viva e in quanto tale mutevole, in evoluzione, inafferrabile. Le sfumature richiedono intelligenza nel senso etimologico del termine. Ma proprio perché sfumature esigono lealtà. Allora inizio dicendo che questo scritto non è una relazione e non è neanche un insieme di teorie. Non ne ha la scientificità e il rigore. E’ semmai una serie di considerazioni basate sull’esperienza. Ventidue anni di negozio mi hanno portata a maturare alcune idee. Allora diciamo un racconto come saluto ad un’esperienza che comunque mi ha dato tanto. Ma proprio perché non ha, e forse non vuole neanche avere una pretesa di scientificità, credo che si dipanerà all’insegna di tanti punti di domanda. Devo confessare che nella punteggiatura il segno interrogativo è quello che prediligo in assoluto. Mi è simpatico, più sbarazzino nella sua curva, meno tronfio della verticalità del punto esclamativo e meno falsamente timido (nella sua piccolezza) del punto e basta. Beh con queste premessa il rischio è quello di partire pensando ad una meta e arrivare ad un’altra. Non è fantastico pensandoci bene? Allora cominciamo con due semplici osservazioni. Provate a pensare a quante volte, entrando in un negozio o anche solo passandoci davanti avete avuto a che fare con donne. E quanti uomini? Di meno o di più? E in quale caso vi siete sentiti più a vostro agio? In linea di massima intendo, così come sensazione. Ripeto le mie non sono teorie quindi queste, anche se così può sembrare, non sono domande retoriche. Sto ragionando insieme a chi mi legge. Dal momento che non ho tesi da difendere non mi riesce difficile dire che mi è capitato di avere a che fare con venditori estremamente empatici (se così si può dire) e venditrici che mi facevano capire che il loro più grande desiderio era che me ne andassi velocemente. Però non è capitato spessissimo. Insomma posso dire che a livello epidermico ci si sente più accolti da una donna? E posso dire che a livello di aspettativa una donna ci fa pensare che saremo accolti meglio? Forse ha qualcosa a che fare con la figura materna, destinataria fin dalla nostra più tenera età di ogni nostra richiesta e (quando va bene) dispensatrice di calore e sorrisi. Può essere. Ma mentre scrivo mi accorgo che quando dico che la vendita è donna penso a qualcosa che non ha a che fare solo con una differenza di genere. Mi spiego. Avete mai pensato a come, spesso, volendo fare un complimento alla delicatezza, sensibilità, attenzione di un uomo vi siete trovati a dire “ha un che di femmineo. Ha un animo quasi femminile”. E femminile non è effeminato. Mi viene da pensare che dire la vendita è donna abbia a che fare anche con una sorta di attitudine. E’ qualcosa che riguarda la modulazione delle parole. Non si tratta solo di sorridere ma di sedurre, nel senso di portare a sè. E questo richiede che chi vende abbia, in qualche modo, acquistato ciò che sta vendendo. Ed è innegabile che le donne (in questo caso sì come genere) abbiano una maggiore facilità nel far loro affettivamente e linguisticamente ciò che vendono. Credo di avere sempre avuto una certa difficoltà a ragionare in astratto. Mi piace legare le mie idee a qualcosa di concreto, qualcosa che accompagni una considerazione a un caso specifico. Vorrei fare qui l’esempio di due donne venditrici, in campi completamente diversi; una è una mia collaboratrice in libreria, Rosy. L’altra è una grande cuoca, proprietaria di un ristorante nel viterbese, Miriam. Strada facendo vi spiegherò perché considero grande venditrice una ristoratrice. Partiamo da Rosy. A parte una simpatia innata e un carattere trascinante essa attua, ogni volta, accorgimenti tecnici direi sofisticati. Quando un cliente chiede un libro che abbiamo reso, Rosy non dice mai questo. Sostiene sempre che il libro è stato venduto. Un po’ perché così da l’idea di una libreria che funziona e sa di cosa sta parlando il cliente. Un pò lo fa sentire accolto perché dire che il libro che sta cercando è stato reso può essere recepito come un giudizio di valore su ciò che sta cercando. Capite cosa mi ha insegnato questa donna? E in tutta la mia lunga carriera solo lei mi ha dato una dritta del genere. E vi assicuro che ho lavorato con dei signor professionisti. Beh, non so voi, ma io questa cura verso una richiesta di un cliente la trovo molto femminile. Non dare mai la sensazione di sottovalutare una richiesta (anche se magari la troviamo davvero stupida) lo trovo molto delicato. E siccome questo è veramente un work in progress mi accorgo che più che dire che la vendita è donna è meglio dire che la vendita diviene donna. E lo diviene attraverso l’uso di parole piuttosto che altre, modulate quasi come andassero a comporre un racconto. Succede spesso che quando si vuole riportare un esempio di saggezza e buon senso ci si rifaccia a un modo di dire, a un proverbio e quasi sempre l’autrice evocata di questa sapienza è una donna: “Come diceva la mia nonna....” “Mia madre mi diceva sempre.....” Le donne come depositarie di parole e storie, racconti e favole. Non si tratta di fare una classifica, semplicemente di accorgersi di come gli uomini (intesi come maschi) vengano considerati custodi di altre cose. Un altro esempio: un cliente difficile, aggressivo. La prima tentazione sarebbe (e molto spesso è) quella di irrigidirsi a nostra volta. Rosy invece sembra diventare di gomma e con parole leggere, morbide di sicuro ironiche, riesce a smontare, a destrutturare il discorso del cliente. E con il discorso anche la sua aggressività. Perché il linguaggio parla di chi lo usa e si abbarbica al nostro stato d’animo divenendo forma verbalizzata di ciò che sentiamo in quel momento. E così una situazione che poteva diventare conflittuale si trasforma in uno scambio linguistico e umano meno mortificante. Nessuno vince o perde. Però, di solito, Rosy, porta a casa una vendita. E ancora una volta penso a come le mamme spesso riescono a far mangiare i più riottosi dei figli. Di fronte a bocche cucite come resistenti reti da pesca, anziché insistere sullo stesso piano, le mamme trasformano quel momento in un gioco. E allora vai di aerei carichi di pappa che atterrano in aereoporti chiusi, navi a forma di cucchiaino che attraccano, trenini che arrivano in stazione con verdure sorridenti. Se le difficoltà si trasformano in racconto ci sono più probabilità che smussino il loro carico di resistenza. Veniamo ora a Miriam. Nel suo ristorante non solo si mangia benissimo, si respira un’aria che non è solo piena di profumi e aromi, ma di accoglienza. Quando lei gira per i tavoli a prendere le ordinazioni compie un gesto che io trovo molto seduttivo e femminile: si siede. Con questo semplice gesto trasmette al cliente la sensazione di regalargli una cosa che non ha prezzo: il tempo. Non solo spiega cosa sono i piatti che propone. Crea un dispositivo, prima di tutto linguistico, in cui le persone si preparano a nutrirsi anche di calore. Anche questa è vendita, di cibo e del locale tutto. Sia ben chiaro che non voglio assolutamente sostenere che gli uomini non possano essere bravi venditori; non a caso ho specificato che volevo parlare degli esercizi commerciali, cioè luoghi in cui è il cliente che si muove per raggiungerli e non il venditore che viene a sua volta accolto. Mi verrebbe da usare un’immagine antropologico-sessuale legata proprio alle due specificità di vendita: l’uomo, che anche nel sesso “penetra” nella vendita lo si trova più facilmente nel ruole del venditore che entra nel territorio altrui; la donna “accogliente” aderisce meglio al ruolo di padrona di casa che apre le porte del suo territorio per far stare bene i suoi ospiti

lunedì 19 aprile 2010

La seconda scomparsa di Majorana



Questo è un libro prezioso. Non lo troverete mai in pila sui tavoli di una libreria. Ma nel mio negozio virtuale sì. Straordinaria testimonianza sull'identità, il corpo e il desiderio di sparire. Sullo sfondo di un'Argentina ancora dilaniata dai ricordi del regime militare e dei desaparecidos. La storia di Ettore Majorana diviene un pretesto per riflettere sul potere delle storie e della letteratura sotto qualsiasi regime. Vorrei davvero vedervi uscire dalla mia libreria con questo testo. Lo merita

I giorni nudi



Nella mia libreria trova posto questo libro. Cosa accade a un cinquantenne all'apice della sua vita lavorativa? Sceneggiatore di successo, uomo affermato. Dopo un incidente incontra una giovanissima donna che lo ributta nel gorgo di incertezze e paure che l'amore porta sempre con sé. Incapace di vivere il presente si immagina già la fine di questa storia. Proprio come una delle sue sceneggiature. Un libro che ci racconta di come la fine delle storie è già nelle parole che usiamo per raccontarcele. Avrei preferito una scrittura in prima persona. Un narratore onniscente, fuori campo mi ha spesso dato l'impressione di un'onnipotenza senza però responsabilità. Comunque il libro è ben scritto e restituisce molto bene quel sottile eppure pesante senso di vuoto che avvolge le persone ad una certà età.

sabato 17 aprile 2010

Giornata particolare

Ieri è stata una giornata particolare per me in libreria. Sandrone Dazieri è venuto qualche ora da noi a fare il commesso e Morgan Palmas, fondatore del blog Sul Romanzo è passato da Milano per conoscere alcuni collaboratori e lettori del blog. Per qualche ora quindi in libreria si è creato un piacevole movimento. Per un attimo mi è sembrato che la libreria fosse tornata ad essere un'autostrada di parole e idee. Un simpatico e un po' confusionario teatro in cui gli attori improvvisavano. Devo dire che, al di là della stanchezza che a volte mi prende, questi momenti in cui faccio la padrona di casa mi piacciono molto. C'è l'aspetto dell'occoglienza che mi trova comunque disponibile.
L'iniziativa dello scrittore commesso l'abbiamo mutuata da una libreria di Cagliari che tempo fa la ribattezzò "Scrittori socialmente utili". Un modo diverso dalla solita presentazione formale. Da noi gli scrittori che si sono prestati a questo gioco hanno messo a disposizione qualche ora del loro sabato per immergersi in modo diverso nella libreria. E per parlare in altro modo del loro lavoro.
sabato prossimo si ripeterà di nuovo l'esperienza con Amedeo Romeo, autore del libro "Non piangere coglione".

giovedì 15 aprile 2010

Lavori in corso

Sul mio tavolo c'è una montagna di libri. Molti già letti e recensiti non si decidono però a trovare posto nella libreria di casa. Tra questi, tre che sto leggendo in contemporanea: "Union Atlantic" di Adam Haslett, "La seconda scomparsa di Majorana" di Jordi Bonells edito da Keller, diventato famoso per avere pubblicato il premio nobel Muller, e "I giorni nudi" di Claudio Piersanti. Libri completamente diversi l'uno dall'altro e che costringono a registri di lettura molto differenti. Devo dire che questo percorrere in contemporanea pagine così distanti l'una dall'altra è una modalità di lettura che ho rimesso in pratica recentemente. Temevo una sorta di dispersione di trame e significati, invece sto scoprendo un modo per rendere la lettura ancora più complessa e variegata. Poi vi parlerò meglio di questi tre testi.

Il mestiere del libraio

Per chi non avesse letto il mio articolo pubblicato dalla webzine del blog Sul Romanzo, lo ripropongo qui. Però leggete questa rivista perché è un prodotto davvero interessante. Tra pochi giorni, in rete, il secondo numero


Ho cominciato a fare la libraia ventidue anni fa. Tanti, pochi. Non saprei dirlo con precisione. In questo sono molto bergsoniana e ho una concezione del tempo variabile a seconda dei momenti, delle prospettive, degli stati d'animo e dei frangenti professionali che mi trovo a vivere. Non vorrei tediarvi con la storia del mio percorso, solo testimoniare una vita fatta di libri, di librerie. Einaudi, Garzanti, Feltrinelli sono solo alcune delle tappe di una geografia libraria che mi ha portata, nel 2006, ad affrontare l'avventura imprenditoriale e a mettermi in società nella gestione di una libreria mia: Il Trittico, a Milano. Ripercorrere questo itineraio amplifica il tempo trascorso tra gli scaffali se lo guardo dalla prospettiva degli incontri fatti, delle esperienze vissute e dell'evoluzione lavorativa che questo mestiere ha fatto registrare. Ogni libreria ha rappresentato un mattoncino in questa costruzione professionale ma, non potendo parlare di ciascuna di loro, vorrei concentrare le mie riflessioni su una in particolare: la Feltrinelli di Via Manzoni a Milano. Questa piccola grande libreria ha rappresentato per me qualcosa di speciale e unico nella mia storia professionale. Non si tratta di disconoscere l'importanza delle altre botteghe in cui ho avuto la fortuna di lavorare ma di ammettere che questa libreria mi ha lasciato addosso le cose più importanti che ho imparato. Sono arrivata in Feltrinelli nel marzo del 1999 e questa data, scritta così, nero su bianco, si staglia ora davanti a me come qualcosa di lontano. Eppure presente. Si lavorava in modo artigianale e molto rigoroso affrontando una gavetta che oggi, troppo spesso, non si fa più. Quello del libraio è un mestiere che si impara sul campo. Edison diceva che un lavoro fatto bene, di qualsiasi cosa si tratti, è fatto dall'1% di ispirazione e dal 99% di traspirazione. Nel senso fisico del termine. E' fatto di fatica. Questo tanto per sgomberare il campo dalla mistificazione che troppo spesso circonda questo mestiere e porta ad ascoltare opinioni sul lavoro del libraio che fanno rabbrividire. Allora si cominciava con il lavorare per qualche mese in magazzino. Tra pesanti colli da ricevere, bolle da controllare, libri da sistemare sul bancone, si prendeva una sorta di confidenza fisica con l'oggetto libro. E si imparava a valutare l'importanza del controllo del flusso dei libri dal magazzino alla libreria. Non tutti i momenti erano buoni per far arrivare ai librai la merce ricevuta e lavorata. In magazzino si controllava che il prezzo segnato sulla bolla corrispondesse a quello di copertina. Un lavoro che ora sembra superfluo. Infatti non si contano i libri che arrivano alla cassa con discrepanze in tal senso. E uno dei primi concetti che si impregnavano nella testa era quello dell'umiltà. Quando si aprivano i colli i libri venivano divisi per editore in modo tale che si spuntassero più o meno nello stesso ordine con cui erano registrati nella bolla. Anche questo sembra un lavoro superfluo. Invece consentiva di sapere subito se un libro era arrivato, senza andarlo a cercare a caso sotto una marea di altri suoi simili. E questa era un'altra lezione: non si lavora da soli ma tenendo conto delle dinamiche di gruppo. Il magazzino veniva considerato nevralgico per il funzionamento della libreria. C'è ancora qualcuno che insegna questo? Bene, dopo circa tre mesi di magazzino si passava in libreria. E qui si continuava con l'impostazione artigianale di cui parlavo prima. La giornata cominciava con lo straccio della polvere. Si spolveravano gli scaffali e i libri. Lavoro umile? Certo. Ma essenziale. Nel lavoro non bisogna focalizzare l'attenzione solo sull'immediato, sul gesto contingente che si sta compiendo. C'è sempre altro. In questo caso fare la polvere non era solo pulire. Significava prendere in mano i libri per sistemare lo scaffale, sfogliarli per capire se fossero posizionati nel giusto settore, decidere di metterli di faccia perché avessero una visibilità diversa. E si imparava a rendere vivo e dinamico uno scaffale. Ma sempre c'era un rapporto fisico con i libri. Bisognava toccarli, guardarli, prenderli in mano. Lo stesso avveniva con il sistema di schedatura e riordino. All'interno di ogni libro (o di una copia se si trattava di libri in numero superiore a uno per lo stesso titolo) c'era una scheda con la carta di identità del libro: autore, titolo, editore, giorno di uscita in libreria, numero di copie arrivate. Quando il libro arrivava alla cassa, la cassiera levava questa scheda e la riponeva in un cassetto. Ad un certo punto della giornata i librai raccoglievano le schede e iniziavano il lavoro di rifornimento. Le schede, che raccontavano la vita del libro costringevano ancora una volta a confrontarsi fisicamente con esso. Il libraio era costretto a girare per il negozio per guardare con gli occhi l'andamento delle vendite e decidere cosa fare di quella scheda: riordinare il libro o reinfilare la scheda in una delle copie di quel titolo. Certo ci si metteva forse qualche minuto in più, ma non si assisteva a storture come quelle odierne di un libraio che riordina i libri guardando solo lo schermo di un computer. Raccolte le schede si dividevano per distributore e si scrivevano i fax a mano. Capite cosa voleva dire, per la memoria bibliografica, scrivere ogni giorno titolo, autore, editore? A questo si aggiunga che, all'epoca, il computer veniva usato solo come banca dati. Non riportava le giacenze dei titoli e il loro settore. Questo implicava che una volta individuato il titolo era il libraio che doveva ricordarsi se quel libro era presente in libreria e dove. Non sono mai stata, per natura, incline a uno sguardo malinconico sul passato. ma forse, senza accorgermene lo sono diventata per ragioni anagrafiche. Lungi da me l'idea di criticare ogni aspetto di modernizzazione del mestiere del libraio. Le cose cambiano, si evolvono. I tempi si accelerano e ogni cosa sembra doversi adeguare a questo.Pensare che il mestiere del libraio potesse esimersi da questo sarebbe stato forse un po' patetico e anacronistico. Ma come tutte le persone che diventano adulte comincio a capire che i proverbi hanno più di un fondo di verità. E dire che "non bisogna buttare anche il bambino insieme all'acqua sporca" è per me qualcosa di più di una citazione popolare. Nel mio tentativo di rivalutare, forse inutilmente, metodi di lavoro non proprio aggiornati, e il farlo attraverso i proverbi c'è qualcosa di più. C'è il desiderio di non perdere, ammesso che ci sia mai stata, una cultura del mestiere. Un recupero anche solo come grido di aiuto di un elemento manuale imprescindibile per fare questo lavoro. Certo ci vogliono letture, tante, curiosità. Ma queste sono un valore aggiunto. Quando sento ragazzi che vogliono lavorare in libreria e portano come motivazione principale il fatto che amano leggere mi viene da urlare di rabbia. Perché, con il tempo e l'esperienza ho imparato a capire cosa c'è dietro questa affermazione. Detto questo una riflessione sui supporti tecnologici su cui oggi possiamo contare. Programmi informatici studiati apposta per la gestione della libreria sono una mano santa. Non sono così vetusta da osare azzardarlo. Sempre tenendo ben presente che questi mezzi sono solo un affiancamento alla professionalità. Non la sostituiscono. La aiutano e l'amplificano. Solo se questa professionalità c'è. Io dico sempre che un libraio imbecille davanti a un computer non diventa un bravo libraio. Resta un imbecille. Non è comunque un caso che il softwer migliore per la gestione sia Macbook, studiato e realizzato da librai. Credo che come prima puntata di questo viaggio nel lavoro di libraia possa bastare. Giusto per far capire di cosa si sta parlando
Geraldine Meyer
Il bisogno di scrivere

Quando la chiacchierata con un amico diviene occasione per riflettere e riflettere ancora

L'altro giorno un amico mi ha chiesto: «Ma insomma, questo tuo rapporto con la scrittura è una malattia o è qualcosa che ti fa star bene?!. Lì per lì non mi sono accorta che quella questione stava entrando nel mio cervello e che ci sarebbe rimasta per un tempo ben più lungo di quello necessario a formulare la risposta. Ho continuato a fare il mio lavoro, ma qualcosa mi distraeva più del solito. Poi sono arrivata a casa e mi sono resa conto che a scavarmi dentro era una semplice letterina. Quella “o” usata dal mio amico rimbalzava tra le mie sinapsi reclamando attenzione. Finalmente ho capito che la risposta che avrei dovuto dare poteva ricalcare le stesse esatte parole del mio amico ma con una minuscola differenza: la scrittura per me è una malattia e mi fa star bene. Quella “o” doveva essere sostituita da una “e”. Mi verrebbe da dire che la sfumatura è semplicemente un abisso.

Come può una malattia far stare bene? Hai presente quando una febbre non troppo forte ti consente di non andare al lavoro pur non mettendoti del tutto fuori gioco? Non è quasi languido startene a letto a leggere, e a bere un tè caldo? Oppure sdraiarti sul divano a fare un po' di famigerato zapping? Scrivere per me è questo. È la malattia dell'illusione che aiuta a costruirsi un'alternativa a un lavoro che non piace più; malattia dell'alibi per non fare cose che non ci divertono («No sai, verrei a bere un aperitivo ma devo scrivere...»); giustificazione agli occhi del mondo per una misantropia che in realtà non si avrebbe neanche più voglia di giustificare. Presa di distanza da un immediato talora troppo invasivo. Calvino ha scritto parole insuperate riguardo alla necessità di una scrittura che eviti la visione diretta delle cose.

La magia delle parole. Allora le parole aiutano una messa a fuoco più precisa, inducono a un respiro più profondo. Vestono i pensieri di abiti meno affrettati. Ho sempre avuto un gran rispetto, anzi direi proprio un amore folle per la parola scritta. Per la parola ben scritta. Isaac Babel diceva che non c'è ferro capace di colpire un cuore più di un punto messo al posto giusto. La scrittura è mestiere in questo senso. Per qualunque motivo mi trovi a immergermici, affronto la fatica del vero e proprio lavoro. Forse perché nella mia vita avrei voluto darle uno spazio ben diverso, le dedico quelle attenzioni miste di amore e senso di colpa che, per esempio, dedicano ai figli i genitori separati. Ma spesso accade che ciò che più amiamo sia anche ciò cui riusciamo a dedicare meno tempo. Ancora una volta trovo conforto nelle letture fatte e, a tal proposito consiglio di leggere Il mestiere di scrivere di Raymond Carver. Davvero formative le pagine in cui racconta le condizioni in cui spesso scriveva; tra figli urlanti, ore strappate al sonno, nei posti più disparati e disperati. Eppure, nonostante, o forse proprio per questo, non ha mai smesso di rileggere e riscrivere. In un continuo lavoro di cesello. La scrittura è un mestiere quotidiano. Che ci dia da vivere, che sia una passione o, semplicemente qualcosa a cui talvolta si deve ricorrere, non dovrebbe essere affidata all'estemporaneità di due righe messe in fila. Qualunque altra attività richiede allenamento, gavetta, esperienza, dedizione e regole. Spesso quest'ultimo aspetto viene vissuto come una gabbia, come qualcosa che non ha niente a che fare con lo scrivere. Come se questo mestiere uscisse impoverito da norme, regole e motivi. Non sono mai stata anarchica nella mia vita e non lo sono neanche rispetto alla scrittura. Il bisogno che ho sempre avvertito di scrivere non mi si è mai presentato come qualcosa di disordinatamente sregolato.

Come si scrive e si legge. Ricordo spesso con grande affetto e ammirazione il mio professore di filosofia del liceo. Usava sempre dire che la vita è semplice. Il difficile è semplificarla. Io ho dato, ogni giorno della mia vita, una lettura molto rigorosa a queste parole. E le ho lette come un monito al duro lavoro per raggiungere la semplicità e la spontaneità. La spontaneità non è qualcosa di innato. Anche se sembra un ossimoro non esiste spontaneità senza regole. Basta vedere la volgarità di chi pensa di poter fare l'attore solo perché ha partecipato a qualche reality. E invece la leggerezza di alcune interpretazioni di attori che hanno sudato lacrime e sangue nelle scuole di arte drammatica. Perché con la scrittura dovrebbe essere diverso? Il mio bisogno di scrivere è sempre andato di pari passo con il mio bisogno di leggere. Non sono mai riuscita a considerare disgiunte le due cose. Indipendentemente da ciò che ho poi davvero scritto o abortito in qualche cassetto, sono sempre stata consapevole degli strati di bellezza che i libri andavano accumulando nella mia testa, senza paura di trovarmi a usare parole non mie ogni qualvolta mi mettevo a scrivere qualcosa.

Siamo sempre in debito con qualcuno. Harold Bloom scrisse un libro splendido sull'argomento, intitolato L'angoscia dell'influenza. Racconta come la paura, conscia o inconscia, di essere influenzati da altri scrittori, per giungere a una malintesa e inutile originalità, porti a un impoverimento della letteratura stessa. È impossibile non essere influenzati da chi ha scritto prima di noi. Quindi è importante saper leggere per arrivare a saper scrivere. Non è solo una questione di grammatica, si tratta proprio di assorbire quelle regole sottese a ogni testo. Che non impoveriscono il bisogno di scrivere, né gli tolgono quello slancio incontenibile che spesso avverto. Questo almeno per quanto riguarda la forma, non meno importante della sostanza. Riuscire a scrivere un libro, un racconto o un articolo è qualcosa che nessun testo può insegnare. Questo è qualcosa che fa parte di un altro registro. Per quanto mi riguarda si tratta di mettere una sorta di cornice ai pensieri, o se vogliamo, come inserire un contrappunto di silenzio alle note di una musica. Insomma una sorta di pausa attiva. Nella mia vita poi la scrittura ha rivestito un ruolo di post it. Una sorta di memento, tanto più trascurato quanto più avvertito come urgente. Come se il mio lavoro di libraia, che dura da ventidue anni e che doveva essere solo una manovra di avvicinamento a un altro modo di vivere nei libri, abbia finito con il diventare una sorta di preservativo a un desiderio che non riuscivo a soddisfare. Allora ho continuato, sempre più stancamente per la verità, a vendere le storie altrui. Rigirandomi tra le mani questi oggetti cartacei, pensando e nello stesso momento impedendomi di pensare a un progetto diverso.

Ma le parole trascinano. Non è possibile vivere in mezzo ai libri per così tanti anni senza lasciarsi travolgere dalle storie. Che richiamano la lettura di altre storie ma anche un desiderio di interloquire a nostra volta con storie nostre. In un continuo dialogo a distanza di tempo e spazio con altri autori.

Il bisogno di scrivere sembra riguardare molte persone. Che si tratti di romanzi, di racconti, di poesie, di post sui social network, ciò che appare evidente è una marea montante di bisogno di dire. I social network meritano considerazioni a parte. Non è questa la sede. Ma la produzione libraria sembra indicare uno strabordante desiderio di scrivere e condividere. Mi sembra necessario fare una precisazione: do per scontato che la scrittura di cui si parla qui, indipendentemente dalla qualità, abbia come denominatore comune un sincero sottofondo di condivisione. La mercificazione è altra cosa, ma ci arriveremo tra poco. Anzi, arriviamoci subito. Da libraia posso dire che mi trovo d'accordo con Ricci che, in forma di favola, sostiene che la ricerca spasmodica per costruire un best seller abbia in realtà prodotto una serie infinita di un libro sempre uguale. La ricerca di elementi accattivanti per il lettore produce una uniformità di forme e modi. Ritengo che questo dipenda dalla tendenza alla spettacolarizzazione della letteratura. Uso questo termine con circospezione perché sappiamo che la letteratura è altro. Diciamo allora produzione letteraria.

Leggere è difficile tanto quanto scrivere. Se c'è sciatteria anche in chi dovrebbe leggere per lavoro, se il criterio principale è il tornaconto economico (importante per carità, nessuno lo disconosce), ciò che arriva alle stampe non può che assomigliare e rispondere a un unico copione. Se la letteratura, la scrittura, riflettono la società in cui si vive, non c'è da sorprendersi se l'offerta ricalca quella che sembra essere la domanda dei più: evasione, conferma delle proprie idee. Nessuno scossone, nessuna sorpresa neanche nei libri. Le eccezioni ci sono per fortuna, ma sono eccezioni appunto.

Nel mondo della scrittura sembra prevalere la cultura del bigino. Mi accorgo che sto invecchiando perché comincio a fare discorsi nostalgici sulla letteratura e sull'editoria di un tempo. Credo però che davvero la visibilità sia stato un virus che ha cominciato tempo fa a minare ciò che doveva essere la peculiarità della comunicazione scritta. Da qui la tendenza a pensieri rimasticati, nozioni riassunte e passaggi televisivi. La faccia, bella o brutta di chi scrive, in televisione si conquista credibilità in dieci minuti.

Viva la televisione. Sono grata, come libraia, a trasmissioni che hanno ricadute sulle vendite. I tempi cambiano, per carità, e i mezzi e i modi per veicolare un messaggio evolvono ogni istante. Talvolta però penso alla fatica di noi librai per esporre un libro, leggerlo, parlarne. Tirarlo fuori dalle scatole, trovargli una collocazione significa un po' affezionarglisi. E spesso lo si deve rimettere, invenduto, nelle scatole destinate alle rese. Poi arriva un'intervista proprio allo scrittore di quel libro e tutti a riversarsi in libreria perché ne ha parlato la televisione. E un libraio si sente inutile. E forse un po' lo è. Ma non può non lasciarmi un certo amaro in bocca il pensiero di un mestiere di leggere-scrivere-vendere che dovrebbe vivere di sottrazione. Rigore, precisione e sottrazione. Soprattutto sottrazione di sé. E penso a Bobbi Bazlen, grande lettore, fondatore della casa editrice Adelphi, scopritore di veri talenti e perle letterarie. Aveva i cassetti stracolmi di pensieri, considerazioni, riflessioni, indicazioni editoriali e letterarie. Non ha mai pubblicato nulla e nell'ambiente letterario dei tempi, con vero rispetto e nessuna ironia, veniva considerato il più grande non scrittore. Solo anni dopo la sua morte, Roberto Calasso ha pubblicato alcuni suoi scritti. Ne consiglio davvero la lettura; sono una lezione di cultura, umiltà, amore per i libri e per lo scrivere. Fidatevi per una volta del consiglio di una libraia. Anche perché Bazlen è morto e in televisione non ci andrà mai.
Perché ho iniziato pubblicando proprio la recensione di "Fenicotteri in orbita"? Credo lo abbia fatto per una serie di ragioni: la prima un senso di gratitudine nei confronti di Morgan Palmas, fondatore del blog Sul Romanzo, perché da lui è partito tutto.La seconda ragione è che questo libro ha rappresentato per me una messa alla prova. Prima di allora era da un tempo abbastanza lungo che non scrivevo. Molte le ragioni, tra cui una sorta di sfiducia paralizzante nei confronti della mia capacità di farlo. È stata quindi un'occasione per ricominciare a scrivere in vista di un obiettivo. Ma questo libro è stato anche una prova dal punto di vista della lettura. Ho voluto rimettermi a leggere racconti; forma letteraria che ho spesso trascurato. Da li poi sono arrivate altre recensioni, altri articoli e un rinnovato interesse da parte mia per la scrittura in generale. E alcune cose nella mia testa hanno cominciato a prendere direzioni nuove. Poco tempo fa ho scritto un articolo proprio sul bisogno di scrivere, e tra poco vorrei condividerlo con voi

mercoledì 14 aprile 2010


Questa è la recensione con cui ho iniziato la collaborazione con il lit blog Sul Romanzo


Fenicotteri in orbita. Philip Ridley. Ed Salani

Ho sempre pensato che l'incontro con un libro fosse, per tanti versi, simile all'incontro con una persona. Al di la' della fisicità, le emozioni e i pensieri, le fantasie e le proiezioni, sono esattamente quelle di un incontro in carne ed ossa. Incontrare la raccolta di racconti "Fenicotteri in orbita" di Philip Ridley edito da Salani e' stato per me come incontrare una persona sgradevole ma necessaria. La sgradevolezza non riguarda ne' la scrittura ne' la qualità dei racconti sia ben chiaro. E' semmai una sensazione di sottofondo che mai ti abbandona durante la lettura. Meno glaciali dei racconti di Carver, senza l'amara ironia di quelli di Checov, i racconti di Ridley ti si presentano come un campo di battaglia pieno di macerie. E le macerie sono le vite dei protagonisti. Vite che non smettono di scorrere pur impantanate nel fango da loro stessi prodotto. E parlo di fango non nell'accezione di sporco ma di torbido. C'e', tra le righe e le parole di questo straordinario scrittore londinese, una persistente ambiguità che non viene spazzata via neanche dalla chiarezza dei destini che vanno raccontando. Si capisce sempre, in ciascuno di essi, quale sia la traccia che Ridley sta suggerendo, eppure mai si riesce a farsi un'idea precisa e netta degli uomini e delle donne di cui racconta. Ad una prima lettura viene da pensare che i protagonisti dei suoi racconti siano degli sconfitti, sempre un pò ai margini. Invece la sua scrittura non solo ci spiazza, costruendo storie impossibili da leggere da un solo punto di vista, ma ci consegna personaggi tutt'altro che marginali; uomini, donne, bambini immersi come non mai nella vita. Ridley ci fa capire come la struttura di un racconto sia estremamente complessa nella sua ritmica, nella sua costruzione. Poche volte mi e' capitato di leggere qualcosa di così sorprendentemente simile all'esistenza reale e prosaica che tutti ci riguarda. E la normalità della cattiveria, dei rapporti umani stanchi e sfilacciati diviene immensa nella sua pochezza. Ma anche straordinaria. Notevole l'alternanza di racconti brevi, brevissimi (talvolta poche righe) ad altri un pò più lunghi. Quasi ad accompagnare, anche a livello di impaginazione, i cambiamenti di ritmo e di respiro dei pensieri e delle situazioni in cui si muovono i personaggi. Non saprei dire quali di questi racconti sia il meglio riuscito; ciascuno di loro ha una personalità diversa pur nella continuità della cifra stilistica dello scrittore. Leggete, per esempio, il primo, che da anche il titolo all'intera raccolta. La scoperta della propria omosessualità da parte di uno dei protagonisti, avviene attraverso un odio feroce verso il proprio oggetto del desiderio, così distante e apparentemente disinteressato. Papa' Rasoio, così si chiama questo protagonista, sconvolto da quello che prova, non puo' far altro che affermare la propria esistenza attraverso l'eliminazione di ciò che non può diventare suo. Allora racconta una bugia il cui ricordo lo perseguiterà tutta la vita. Passiamo all'ultimo racconto intitolato "Continuità” e ci accorgeremo che, seppur attraverso una storia completamente diversa, anche qui c'è un uomo, che per tutta la vita si e' scontrato con l'esempio di un fratello ricco, di successo, amatissimo dalla madre, un uomo a cui riusciva facile tutto ciò che faceva. Un'immagine che si e' insinuata in ogni piega della sua vita. Quando le cose, come accade, si capovolgeranno, il fratello "fallito" si troverà nella posizione del "vincente". In realta' nessuno ha vinto o perso. Ciascuno vince e perde insieme. Ma non possiamo non notare come anche in questo racconto l'affermazione di se' non riesca ad arrivare se non attraverso la scomparsa, reale o metaforica, di quello che riteniamo essere un ostacolo. Che poi lo sia davvero o meno perde di importanza. Perchè ciò che accomuna la disperazione dei personaggi di Ridley, tutti, nessuno escluso, e la loro incapacità di staccarsi da cioòche vivono per restare impantanati nella percezione che essi hanno delle vicende che li riguardano. Le cose non sono le cose, diceva anche il titolo di un libro di qualche anno fa, le cose sono ciò che noi percepiamo e il modo in cui lo facciamo. E questo modo, secondo lo scrittore, ci rimane dentro dall'infanzia, sempre. Nei racconti più lunghi, quelli in cui Ridley si concede più tempo per descrivere i personaggi in modo complesso e sfumato, la narrazione si snoda attraverso veri e propri frammenti quasi cinematografici, di continui sbalzi temporali. I protagonisti sono ripresi, in continua alternanza, in immagini della loro vita di bambini e poi di adulti. Poi ancora bambini e così via. E le radici del loro disagio, del loro divenire adulti carichi di gesti spesso stanchi e senza slanci, nascono da li', come e' inevitabile che sia. Come se ciascuno di loro, e infondo ciascuno di noi, non potesse fare a meno di portarsi addosso lo sguardo sul mondo del bambino che è stato, con le violenze anche solo verbali, subite come un'ingiustizia perenne. La sensazione che ti si appiccica addosso con la lettura di questi racconti è quella di un'infanzia infinita. Ma non un'infanzia dorata, piena di gioia e campanelli che suonano. No. Semmai una fase della vita tragica e difficilissima, ricca di scoperte non sempre piacevoli, certo avventurose, ma nell'accezione tragica del termine. In questi racconti non c'è redenzione e in nessuno di essi i conti tornano, non nel senso di un riequilibrio tra ciò che si è perso e ciò che si è guadagnato. Se tornano lo fanno solo per sottolineare il difficile "mestiere di vivere"