Lasciata l'Einaudi vinco una mia naturale tendenza a negarmi i pensieri più folli. Oddio non sto parlando di chissà cosa. Siamo sempre nell'ambito librario. Decido di mandare un curriculum in Feltrinelli. Conoscevo la libreria di Via Manzoni. Ci andavo due volte alla settimana prima di recarmi a lezione di inglese al British Council che si trovava a pochi metri. Giravo, guardavo i libri e i librai. Li guardavo lavorare e mi sembrava che sapessero bene cosa fare. Mi sembravano orgogliosi del loro badge, appuntato alle camice che li identificavano come librai Feltrinelli. Mi sembrava che avessero un ruolo. Forse in quel momento ho imboccato una strada sensa uscita: ho cominciato a pensare che il mio destino fosse proprio la libreria. Pensavo che nel mio dna ci fosse questo mestiere. E ho cominciato a sovrapporre quello che facevo a quello che ero. Ecco il problema: ho cominciato a pensare di essere una libraia. Insomma mando il curriculum e dopo un paio di settimane vengo convocata per un colloquio. Parlo con Romano Montroni, allora leader maximo delle librerie Feltrinelli e con Valerio Giuntini, direttore della sede di Via Manzoni e, allora, erede designato di Montroni. Un'ora di colloquio e poi niente. Nessuna risposta. Passo i giorni aspettando una telefonata. Ma il sogno feltrinelliano non doveva essere realizzato. Non a quel punto. Una domenica vado a Belgioioso a vedere una delle prime edizioni della Mostra del piccolo editore. Ne avevo scoperto l'esistenza perché all'epoca studiavo all'università di Pavia e facevo visita, tutti i giorni, ad un libraio della città che ne aveva attaccato in vetrina il volantino. Devo dire che da questo libraio ho trascorso forse più ore che in aula. Mi regalò una copia del Procuratore della Giudea dicendo: "Si vede che ami tanto i libri, si capisce da come li tocchi." A Belgioioso conosco Gerardo Mastrullo, direttore della libreria Garzanti che, in quegli anni era in Galleria Vittorio Emanuele. Ora non c'è più, già da un po'. Era stata sostituita da un negozio di cravatte. Non so se sia ancora così. Iniziamo a parlare e ci salutiamo con la promessa di andarlo a trovare in negozio. Per farla breve inizio a lavorare in Garzanti. Sempre in nero naturalmente. E anche in questo caso non mi tocca lavorare nella sede principale ma in quella defilata e sfigata di Via Meravigli. Sono ancora troppo giovane e troppo piena di entusiasmo. Quel lavoro mi piace. Imparo e mi impegno. Sempre. La gioia di sostituire per una settimana una collega in ferie e una settimana nella sede in Galleria. Quella era una signora libreria e io sono una spugna di curiosità che assorbe tutto: titoli, editori, autori. Ma la settimana finisce e devo tornare nelle retrovie. E di contratto non se ne parla. Gerardo Mastrullo resta uno dei personaggi più inquietanti incontrati nella mia non breve carriera. Basso, con le punte dei piedi rivolte verso l'interno che, unite a un sedere basso e non piccolo, gli conferiva una camminata da pennuto. Lo si sarebbe detto un pupazzo bonaccione. Ma se si prendeva la briga di alzare lo sguardo e di guardargli il viso si notava un perenne sogghigno a mala pena nascosto dalla barba. E due occhietti sfuggenti e a fessura che lasciavano trasparire qualcosa di ambiguo. Aveva un tono di voce basso, mellifluo e monotòno. Quello che ha usato per un anno per farmi credere che sarei stata presto assunta. Invece per un anno ho lavorato tutti i giorni, tutto il giorno con la mia bella ritenuta d'acconto. Però venivo pagata ogni tre mesi perché così potevano sostenere che fosse una prestazione occasionale. Ma a me quel lavoro continuava a piacere. Ero giovane e pensavo che fosse una inevitabile gavetta. E intanto continuavo a imparare. Senza scuole o corsi di formazione, ma a suon di fatica e ore e ore passate in negozio. Il problema è che in via Meravigli, in quella libreria dimenticata da dio e, quasi, dagli uomini passavo tante ore da sola. E cominciavo ad annoiarmi. Un giorno sul Corriere della Sera leggo questo annuncio: "Catena di librerie cerca responsabile del settore di varia. Con esperienza." È la volta buona mi dico. Si ricomincia. Rispondo all'annuncio, faccio il colloquio e per la prima volta nella mia vita vengo regolarmente assunta. Terzo livello del contratto del commercio. Guardo e riguardo il mio primo contratto. Nessun incarico da responsabile in realtà ma, vabbè, una piccola bugia ma c'è l'assunzione regolare. E il virus della fregatura continua la sua strada. È il 1993 e approdo al Libraccio. Cinque anni di lavoro matto e disperatissimo. Per la prima volta lavoro con un vero gruppo di persone e il concetto di microcosmo lavorativo farà la sua comparsa nella mia vita.
Continua...
Prima nella rete, poi sulla strada, questa bottega vuole essere una specie di consigliera editoriale. Via dalle classifiche ufficiali e dalle vendite pilotate. Libri introvabili, fuori catalogo o, comunque, difficili da recuperare
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venerdì 19 novembre 2010
mercoledì 17 novembre 2010
Una storia lunga vent'anni e più III puntata
E qui cominciano le prime crisi. Perché comincio anche ad ascoltarmi e a capire, seppur confusamente che il mio vero desiderio era sì quello di lavorare tra i libri ma dall'altra parte. Cioè in una casa editrice. Il mio passaggio in libreria avrebbe dovuto essere una manovra di avvicinamento provvisoria. E poi, purtroppo è diventata definitiva. Ogni mio tentativo di uscire dal negozio si scontrava con il silenzio delle persone a cui chiedevo aiuto o con il loro presunto non poter far nulla per aiutarmi. Il mondo dell'editoria per me è stato una lunga sequenza di no grandi come muri. Invalicabili. Pensate che anche il buon Cerati, mitico presidente dell'Einaudi, ha sostenuto di non poter far nulla per farmi lavorare in una casa editrice. E non è che volessi fare chissà cosa. Disposta da sempre a fare qualunque tipo di lavoro e di gavetta. Niente. E il defunto Alessandro Gennari, scrittore e critico letterario, autore tra l'altro di un libro pubblicato con Einaudi insieme a De Andrè, si è aggiunto alla lista degli arrivati ma impotenti. Anche solo trovarmi un posto come correttrice di bozze era per lui impossibile. Eppure quando veniva in libreria chiedeva lo sconto e, in nome di non si sa quale amicizia, veniva sempre accontentato. È morto con tre libri pubblicati, uno da Garzanti, uno da Einaudi e uno da Piemme. Ricordo che pochi giorni dopo avergli chiesto un lavoretto come correttrice di bozze magari proprio alla Piemme ed essermi sentita dire che non c'era nessuna possibilità, vengo a sapere che quell'editore aveva fatto addirittura un annuncio sui giornali per assumere collaboratori. Io l'annuncio l'ho trovato troppo tardi. Anche quel treno era passato. Io continuo a spedire curricula, nessuna risposta o risposte tutte uguali. Mi dicono che bisogna avere delle conoscenze ma quelle che ho non servono. Non so ancora come ma, da sola, riesco a trovare un lavoro alla Giunti Multimedia. Si tratta di scrivere una serie di guide alle città rivolte agli studenti. Budget basso e informazioni mirate. Il tutto da pubblicare sotto forma di cd rom. Il lavoro mi piace, lo posso fare da casa secondo i miei ritmi. Quando finisco i vari moduli spedisco tutto via mail. Mi piace. Il mio lavoro viene apprezzato e pagato con ammirevole solerzia. Purtroppo era occasionale. Il mio interlocutore mi assicura che qualora avessero ancora bisogno chiameranno di sicuro me. Le cose andranno diversamente. Non li sento più fino a quando mi chiamano ma io ero appena stata assunta dalla Feltrinelli. In libreria ovviamente. E lavorando dieci ore e mezza al giorno in bottega ho dovuto dire no alla Giunti. Ma questo è un disordinato salto temporale. Prima della Feltrinelli è successo altro. Compreso un piccolo lavoro di correzione di bozze, trovato sempre da sola, presso l'editore SE. Trovato, fatto, pagato e finito. Ma torniamo in libreria. Lasciata l'Einaudi sta per arrivare la Garzanti.
Siccome continuo ad essere una stupida illusa, che ha visto troppi film e letto troppi libri, non riesco ad impedirmi di immaginare questa evoluzione: un editore legge il mio blog e decide di offrirmi qualche lavoretto; un altro mi propone di pubblicare le mie esperienze in libreria. Siamo onesti: chi non ha mai sperato che un blog possa funzionare anche come agenzia di collocamento? Perché rendere pubblico qualcosa se non si spera, in fondo, di ricavarne qualcosa? Davvero solo un nobile e non richiesto spirito di condivisione? Ma andiamo. Allora anch'io, nei giorni in cui non lavoro in negozio, mi prefiguro speranze e radiosi futuri. Alibi per i giorni in libreria aspettando solo che passino. Tra libri inutili e clienti che, senza altra colpa che quella di essere clienti, sono diventati solo un'intrusione nel mio spazio vitale, sogno una scena madre in cui dopo un urlo abominevole me ne vado. Prendo il mio treno per la Tuscia e faccio i lavori che mi piacciono. E riavvolgo i libri di quell'amore che non ho mai perso per loro ma che è stato offuscato da quel contorno commerciale che non mi appartiene più.
Siccome continuo ad essere una stupida illusa, che ha visto troppi film e letto troppi libri, non riesco ad impedirmi di immaginare questa evoluzione: un editore legge il mio blog e decide di offrirmi qualche lavoretto; un altro mi propone di pubblicare le mie esperienze in libreria. Siamo onesti: chi non ha mai sperato che un blog possa funzionare anche come agenzia di collocamento? Perché rendere pubblico qualcosa se non si spera, in fondo, di ricavarne qualcosa? Davvero solo un nobile e non richiesto spirito di condivisione? Ma andiamo. Allora anch'io, nei giorni in cui non lavoro in negozio, mi prefiguro speranze e radiosi futuri. Alibi per i giorni in libreria aspettando solo che passino. Tra libri inutili e clienti che, senza altra colpa che quella di essere clienti, sono diventati solo un'intrusione nel mio spazio vitale, sogno una scena madre in cui dopo un urlo abominevole me ne vado. Prendo il mio treno per la Tuscia e faccio i lavori che mi piacciono. E riavvolgo i libri di quell'amore che non ho mai perso per loro ma che è stato offuscato da quel contorno commerciale che non mi appartiene più.
martedì 16 novembre 2010
Una storia lunga vent'anni e più II puntata
E così, dopo nove mesi dal primo impiego in nero, partorisco un licenziamento in nero. Quella che sarebbe stata la decisione più saggia e cioè dimenticare il lavoro in libreria, purtroppo dura poco. Durante una delle mie passeggiate pigre per Milano entro nella libreria Einaudi che allora stava in Galleria Manzoni. Una libreria bellissima, un luogo magico pieno di storia e libri. Ma libri veri, libri importanti. tanti, tantissimi libri. Un catalogo che conoscevo dalle mie letture. E un nome, Einaudi, che mi faceva tremare le vene. Due piani di pagine, con i passi resi ovattati da una specie di moquette, i mobili scuri e gli occhi a lottare con una luce resa troppo forte dal buio esterno. Mi sembrava di essere su un palcoscenico. Chiedo se posso lasciare il mio curriculum e mi viene detto di portarlo nella sede di Via Goito al signor Piero, responsabile ad interim dei due negozi. Mi precipito nella via che ospita il famoso e famigerato liceo Parini. E trovo una deliziosa bottega, una libreria a forma di libreria, con soppalco e saletta che da su un cortiletto silenzioso. Il germe dell'illusione si insinua dentro di me subdolo e suadente. Parlo con questo Piero, un uomo piccolo, con una gran barba e due occhi nerissimi e inquieti. Scoprirò solo dopo quanto sia seria quell'inquietudine. Insomma inizio a lavorare per l'Einaudi. Anche qui tante belle parole, tanti bei propositi e nessun contratto. L'altra fregatura era l'orario di lavoro. Dal momento che il negozio era, come dicevo, davanti ad una scuola, faceva anche servizio di cartoleria e doveva aprire prima dell'ingresso in aula degli studenti; cioè alle 7 e 15. Quindi io avrei lavorato li e non nella sede principale, dalle 7 e 15 alle 15 e 30. Da sola. Il mio maestro si rivelava ogni giorno di più un uomo pieno di seri problemi, di sbalzi d'umore leggermente sopra le righe. Un uomo buonissimo ma fatto a pezzi da una brutta forma di schizofrenia. Momenti di lucidità in cui mi insegnava un mestiere si alternavano ad altri fatti di discorsi deliranti e, per me, ingestibili. Il negozio lavorava pochissimo. Io in pratica ero ridotta a fare la cartolaia che vendeva fogli protocollo per i compiti in classe dei figli della buona borghesia, penne e, qualche volta, classici latini e greci. L'unico momento in cui mi divertivo era quando, con la bici, portavo i libri a casa di Milva, la cantante, che era una cliente. E quando potevo lavorare qualche ora nella sede principale. Per il resto era una sensazione di angoscia ogni mattina. Parlai con Piero e gli dissi che volevo andarmene. La reazione fu piuttosto scomposta. Appena ritrovata un po' di calma mi disse che aveva già fissato un appuntamento con l'allora direttore commerciale dell'Einaudi per farmi assumere. Era una bugia solo a metà. L'appuntamento c'era davvero ma il contratto di cui si parlò fu quello a ritenuta d'acconto. Ricordo il colloquio quel giorno: io, Piero e il direttore commerciale l'un contro l'altro armati. Io piena di rancore per una promessa falsa, il direttore incazzato nero con Piero per aver raccontato una balla e Piero che stava per piombare in uno dei suoi viaggi lontani e imprendibili.
Una sera il direttore commerciale indisse una riunione nella libreria di Galleria Manzoni. La situazione stava diventando preoccupante, fu l'unica cosa che mi venne anticipata. Quando arrivai capii che la riunione era in realtà un processo a Piero che, ovviamente era assente. Fu dichiarata con ben poca sensibilità la sua malattia e l'intenzione dell'azienda di allontanarlo. Il direttore commerciale parlando di lui non lo chiamava mai per nome ma con l'epiteto di pazzo. Come io abbia fatto a resistere un anno in quel posto lo sa solo dio. Forse ero pazza anch'io. Però avevo cominciato ad imparare un mestiere grazie al pazzo. Me ne andai e non seppi più nulla di lui. Anni dopo lo incontrai alla presentazione di un libro di Verdiglione. Mi sembrava disperato e completamente perso. Gli occhi rossi e nervosi. Mi vide ma si girò dall'altra parte e sparì. Si era conclusa anche la mia avventura in quello che sembrava essere il tempio della cultura.
Una sera il direttore commerciale indisse una riunione nella libreria di Galleria Manzoni. La situazione stava diventando preoccupante, fu l'unica cosa che mi venne anticipata. Quando arrivai capii che la riunione era in realtà un processo a Piero che, ovviamente era assente. Fu dichiarata con ben poca sensibilità la sua malattia e l'intenzione dell'azienda di allontanarlo. Il direttore commerciale parlando di lui non lo chiamava mai per nome ma con l'epiteto di pazzo. Come io abbia fatto a resistere un anno in quel posto lo sa solo dio. Forse ero pazza anch'io. Però avevo cominciato ad imparare un mestiere grazie al pazzo. Me ne andai e non seppi più nulla di lui. Anni dopo lo incontrai alla presentazione di un libro di Verdiglione. Mi sembrava disperato e completamente perso. Gli occhi rossi e nervosi. Mi vide ma si girò dall'altra parte e sparì. Si era conclusa anche la mia avventura in quello che sembrava essere il tempio della cultura.
Una storia lunga vent'anni e più
A chi può interessare la storia di una anonima libraia milanese? E già mentre la formulo la domanda suona un po' falsa. Il fatto solo che la stia scrivendo, anche solo per il mio blog che pochi leggono, vuol dire che in fondo spero che a qualcuno interessi. Oltre a me naturalmente. Se non si è sinceri neanche con sé stessi a quarantaquattro anni viene il dubbio di aver imparato ben poco dal susseguirsi dei giorni. E perché scriverla? Forse per dare a me stessa la possibilità di rileggerla e di metterle la parola fine. Illusorio potere quello della scrittura, che porta a credere di poter vivere qualcosa di diverso e di poterselo levare di dosso con una parola. Ma io ci spero. O almeno spero di poter concludere materialmente qualcosa che, dentro di me, si è già concluso. E si trascina stancamente, senza più voglia ed entusiasmo.
Era novembre del 1989. Decisi che volevo lavorare in libreria. Devo fare uno sforzo per cercare di ricordare cosa esattamente mi aspettassi da questo lavoro. Fatto sta che dopo solo una settimana dall'invio di qualche curricula mi rispose una libreria di Via Dante. La facilità con cui avevo trovato lavoro avrebbe dovuto mettermi in guardia sul lavoro stesso. E invece non ci badai. Pensai che il mio destino fosse talmente chiaro che non potevo non trovare quello che desideravo. Invece quasi subito capii che già all'epoca in libreria a lavorare entravano cani e porci. Nessun contratto ovviamente e una paga di 5000 lire l'ora, che diventavano ben 7000 per gli straordinari e i festivi. Come ultima arrivata non dovevo fare altro che aprire scatoloni e fare spunte. Anche la sistemazione dei libri a scaffale doveva essere fatta dal commesso più esperto. La domenica mi limitavo a fare l'antifurto umano davanti alla porta di ingresso, dare vaghe informazioni senza muovermi da dove ero. I clienti venivano serviti da chi lavorava li già da un po' e sapeva come muoversi. Nel giro di poco tempo sarei diventata anch'io esperta in quel difficilissimo lavoro. Quando poi mi fu dato il permesso di fare addirittura cassa ebbi anche l'ingenuità di provare un po' di orgoglio.
Quando i proprietari del negozio aprirono un'altra libreria in Via Torino fui trasferita con l'improbabile incarico di responsabile di negozio. Il titolare mi fece un discorso che voleva essere motivante, prospettandomi addirittura una entrata in società. Il tutto sempre senza neanche assumermi. Il problema è che ci credevo e mi divertivo. La libreria era da allestire. E devo dire che, sebbene massacrante, fu un lavoro appassionante. Vedere il negozio che prendeva forma poco a poco dava quasi un senso di onnipotenza. mancava solo che il padrone ci radunasse per dirci: "Ragazzi, qui si fa la storia." E io ci avrei creduto. La paga era aumentata: 6000 lire all'ora di base che diventavano ben 8000 nei festivi. E sempre nessun contratto. Il negozio venne inaugurato e per i primi mesi funzionò anche bene. Poi si assestò in una dignitosa stasi. La paga era sempre quella. I titolari tenevano anche alcuni tavoli di vendita sotto un tendone ai piedi del Duomo. La ragazza che ci lavorava come responsabile era una brunetta molto carina e disinvolta. Seppi che veniva pagata più di me per meriti extra lavorativi conferitigli dal capo. Se dico questo non è per la solita rivalità femminile, ma semplicemente perché la cosa non veniva neanche resa misteriosa da un po' di discrezione. Mi licenziai all'istante senza neanche avere firmato mai un contratto.
Continua...
Era novembre del 1989. Decisi che volevo lavorare in libreria. Devo fare uno sforzo per cercare di ricordare cosa esattamente mi aspettassi da questo lavoro. Fatto sta che dopo solo una settimana dall'invio di qualche curricula mi rispose una libreria di Via Dante. La facilità con cui avevo trovato lavoro avrebbe dovuto mettermi in guardia sul lavoro stesso. E invece non ci badai. Pensai che il mio destino fosse talmente chiaro che non potevo non trovare quello che desideravo. Invece quasi subito capii che già all'epoca in libreria a lavorare entravano cani e porci. Nessun contratto ovviamente e una paga di 5000 lire l'ora, che diventavano ben 7000 per gli straordinari e i festivi. Come ultima arrivata non dovevo fare altro che aprire scatoloni e fare spunte. Anche la sistemazione dei libri a scaffale doveva essere fatta dal commesso più esperto. La domenica mi limitavo a fare l'antifurto umano davanti alla porta di ingresso, dare vaghe informazioni senza muovermi da dove ero. I clienti venivano serviti da chi lavorava li già da un po' e sapeva come muoversi. Nel giro di poco tempo sarei diventata anch'io esperta in quel difficilissimo lavoro. Quando poi mi fu dato il permesso di fare addirittura cassa ebbi anche l'ingenuità di provare un po' di orgoglio.
Quando i proprietari del negozio aprirono un'altra libreria in Via Torino fui trasferita con l'improbabile incarico di responsabile di negozio. Il titolare mi fece un discorso che voleva essere motivante, prospettandomi addirittura una entrata in società. Il tutto sempre senza neanche assumermi. Il problema è che ci credevo e mi divertivo. La libreria era da allestire. E devo dire che, sebbene massacrante, fu un lavoro appassionante. Vedere il negozio che prendeva forma poco a poco dava quasi un senso di onnipotenza. mancava solo che il padrone ci radunasse per dirci: "Ragazzi, qui si fa la storia." E io ci avrei creduto. La paga era aumentata: 6000 lire all'ora di base che diventavano ben 8000 nei festivi. E sempre nessun contratto. Il negozio venne inaugurato e per i primi mesi funzionò anche bene. Poi si assestò in una dignitosa stasi. La paga era sempre quella. I titolari tenevano anche alcuni tavoli di vendita sotto un tendone ai piedi del Duomo. La ragazza che ci lavorava come responsabile era una brunetta molto carina e disinvolta. Seppi che veniva pagata più di me per meriti extra lavorativi conferitigli dal capo. Se dico questo non è per la solita rivalità femminile, ma semplicemente perché la cosa non veniva neanche resa misteriosa da un po' di discrezione. Mi licenziai all'istante senza neanche avere firmato mai un contratto.
Continua...
martedì 2 novembre 2010
Tuscia
Oggi guidavo attraverso la campagna tusciana e ancora una volta mi sono lasciata incantare dai colori di questa terra. C'erano alberi le cui chiome, colpite dalla luce del sole, sembravano lingue di fuoco dorato che si stagliavano sulle acque scure del lago di Bolsena. Vorrei farvi sentire gli odori di questa campagna, farvene vedere i colori, assaporare i profumi di camino che escono dalle case dei paesi abbarbicati sulle colline. Non è possibile, però posso regalarvi queste letture su questa magica regione dell'alto Lazio
Cultura come difesa dall'imbecillità
Credo che questa affermazione del presidente del consiglio dovrebbe e potrebbe offendermi. Invece mi passa sopra come un inutile venticello. Però mi preoccupa. Per ciò che porta con sè, per ciò che non suscita in termini di indignazione. Certo nella rete si intrecciano commenti disgustati, battute feroci contro quelle parole pronunciate con la solita noncuranza da parte di chi pensa di potersi permettere ogni cosa. Il senso del limite, il senso della misura, merce così preziosa per una convivenza almeno civile, sembrano irrimediabilmente persi in questo paese moribondo. Del resto l'equazione diviene sempre più drammatica ed eloquente: tagli alla cultura=criminalità linguistica.
Berlusconi e la letteratura omosessuale
Raymond Carver
Continuo a pensare che leggere i racconti di quest'uomo sia una palestra essenziale per chi voglia scrivere. Che piacciano o no sono, dal punto di vista delle tecniche narrative un materiale da cui non si può prescindere. Raymond Carver e un pò della sua storia http://www.youtube.com/watch?v=oapV2DzeYBw
Vivere di scrittura
Interessante articolo su La Repubblica di oggi 2 novembre dal titolo La scrittura non paga. Diciamoci la verità, quanti di noi non vorrebbero poter vivere di questo? Dedicarsi, ai più diversi livelli, di scrittura. Ma non è facile. Le cifre sono da fame. A meno che non si raggiunga un volume di vendite che oscilli tra le 50000 e le 100000 copie. A quel punto gli anticipi pagati dagli editori possono consentire un tenore di vita più che buono. Può essere utile e divertente consultare questi siti "Scrittori precari" e "Scrittori sommersi"http://www.scrittorisommersi.com/ . La rete ha contribuito non poco ha dare almeno la speranza di una diffusione meno difficile dei propri scritti. Ma lasciare il proprio lavoro per dedicarsi totalmente al mestiere di scrivere è privilegio per pochissimi. E spesso, tra quei pochissimi, qualcuno che farebbe meglio a tornare a guadagnarsi la vita in altro modo c'è.
lunedì 1 novembre 2010
calvino e la scrittura
Lui è una continua ispirazione per chi, come me, si interessa di lingua e scrittura. Calvino e le sue inesauribili Lezioni americane sono un materiale inesaurubile di idee e riflessioni. Ascoltiamoci questa intervista
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È un film davvero illuminante per chi fa questo mestiere. Perché questo siamo anche se facciamo i librai. Anche perché non vedo nulla di ignobile in questo mestiere. Libraio è più nobile? Quando sono andata a rinnovare la carta d'identità l'impiegata mi ha chiesto che mestiere facessi. Le ho risposto, quasi con pudore, che faccio la libraia. Non so perché mi sarebbe piaciuto che comparisse sul mio documento d'identità. Che pretesa infantile, che stupido attaccarsi a un marchio di fabbrica. E infatti, allo sguardo perplesso dell'impiegata fa seguito il suo digitare sulla tastiera alla ricerca di questa parola. "Mi dispiace ma non è inserita nel database." Allora ha messo impiegata. Allora preferivo commessa. Non sono stata a chiederle se quella parola esistesse nel database. Ho avuto paura di trovare conferma del fatto che se non c'è una parola per dirlo, allora non esiste. Infatti libraio non esiste più.
È un film davvero illuminante per chi fa questo mestiere. Perché questo siamo anche se facciamo i librai. Anche perché non vedo nulla di ignobile in questo mestiere. Libraio è più nobile? Quando sono andata a rinnovare la carta d'identità l'impiegata mi ha chiesto che mestiere facessi. Le ho risposto, quasi con pudore, che faccio la libraia. Non so perché mi sarebbe piaciuto che comparisse sul mio documento d'identità. Che pretesa infantile, che stupido attaccarsi a un marchio di fabbrica. E infatti, allo sguardo perplesso dell'impiegata fa seguito il suo digitare sulla tastiera alla ricerca di questa parola. "Mi dispiace ma non è inserita nel database." Allora ha messo impiegata. Allora preferivo commessa. Non sono stata a chiederle se quella parola esistesse nel database. Ho avuto paura di trovare conferma del fatto che se non c'è una parola per dirlo, allora non esiste. Infatti libraio non esiste più.
Ho lo sconto dunque sono
Ci sono clienti che, alla casa, prima ancora di salutarti ti chiedono: "Fate sconti?" Oppure, con un sorrisino che vorrebe essere di complicità, con un tono di voce non troppo alto (per suggerire una confienza carbonara) ma neanche troppo basso da impedire che gli altri si accorgano di questo enorme privilegio chiedono: "Si ricorda che ho lo sconto vero?" E queste, per molti di loro sono le uniche modalità di relazione con il libraio. Mi suona così italiota questo modo di fare, oltre che estremamente cafone. Ma dove diavolo andrai con quell'euro che hai risparmiato da noi? O addirittura un euro e venti centesimi a volte. Li vai a mettere nelle mani di qualche mendicante per sentirti a posto con la tua anima? Oppure ti serviranno per pagare il gratta e sosta per parcheggiare il tuo suv? Ti farei pagare un caffè, quello di Don Raffaè però
Cosa leggerei oggi
Il suono della pioggia, il vento, una luce soffusa, le persiane ancora in parte abbassate. Una musica che si infila nelle pieghe di questa giornata. Non molto originale come suggestione di lettura ma, in fondo chi se ne importa dell'originalità. A me viene in mente questo libro. Un uomo senza la sua nave, senza il mare si perde per le strade del mondo. E penso a quanto sia importante sentirsi esattamente dove si vuole essere. Il senso di un'appartenenza che non imprigiona, non immobilizza. E una donna che arriva con la pioggia.
Uno sporco mestiere
Mi piace molto questo blog Le memorie di un libraio. Lo leggo con grande piacere perché mi ci riconosco in pieno. Sento così spesso parlare a sproposito del lavoro in libreria che cui vorrei che queste pagine finissero sotto gli occhi di chi con sguardo sognante dice:" Che bel lavoro che fate. Chissà quanto tempo avete per leggere in libreria." Ma cosa pensa la gente di questo lavoro? Ma cosa crede che sia? pensa davvero che ci sia cultura in quello che è diventato? E di quale cultura stiamo parlando? Di quella televisiva di Fazio? O dei siparietti finto letterari all'interno di quei disgustosi contenitori domenicali? Venite, venite parvulos a lavorare in libreria, anche solo per un mese. Così magari le parole usciranno meno ardite e melense dalle vostre bocche
Un viaggio nel viaggio
Mi piace guardare le persone quando leggono in treno. Ma non mi interessa tanto sapere cosa leggono quanto osservare come lo fanno. La posizione che assumono, come lo sfogliano. Appoggiati allo schienale del sedile, piegati sul tavolinetto di fronte a loro. Ogni tanto lo sguardo si alza dalle pagine e vaga sullo schermo del finestrino su cui le immagini corrono veloci. I gesti che precedono la lettura sono quelli che mi piacciono di più: si apre lo zaino, si estraggono gli occhiale dalla custodia, le pezzuolina per pulirli. Poi la si ripiega. Una sorsata alla bottiglietta d'acqua e le mani che cercano di recuperare la pieghina con cui si è indicato dove la lettura è stata interrotta. E il mondo intorno scompare.
Il mattino ha un libro in mano
Questa mattina mi sono svegliata alle cinque e mezza. Mi succede spesso quando sono contenta e ogni istante mi sembra un boccone appetitoso da gustare con voracità. Sono nella Tuscia, questa zona bellissima dell'alto Lazio e sono a casa della mia compagna. Piccoli frammenti di quitidianità, caffè, chiacchiere oziose e lente. I particolari assumono un'importanza dilatata dalla lentezza dei gesti. Il gatto sulla finestra, la mia compagna che si prepara un decotto alla salvia, la bottiglia di acqua sul tavolino, il tabacco, la sigaretta che si consuma lenta tra le dita. Attimi che si amplificano con una scia di sensualità. E la testa viaggia, pensa, fantastica in un tempo dilatato e fluido. C'è qualcosa di eccitante in tutto questo, quasi di fisico. Come se fossi calata in una sensazione di possibilità infinita. Respiro. E per contrasto mi vengono in mente alcuni momenti in libreria durante i quali mi sento come un criceto sulla ruota: l'illusione del movimento che si arrotola su sé stesso, che non ti fa fare neanche un passo. Allora guardo fuori dalla vetrina, cammino nervosa, evito i clienti e sfoglio un libro. Poi lo ripongo nello scaffale e ne prendo un altro. Cerco appigli tra le parole, una scialuppa di salvataggio all'inqietudine di essere dove non voglio. La libreria come gabbia. Sono brutti quei momenti. Cerco un disperato aiuto tra le pagine, lancio un urlo silenzioso a quei piccoli caratteri d'inchiostro stampati su carta. Ma ora, qui è tutto diverso. Mi lascio attraversare dal sentimento di carnalità che mi lega sempre più ai libri e sempre meno alle persone che entrano in libreria. Scarnificata, ridotta all'osso la mia voglia di relazionarmi con i clienti sento aumentare il bisogno fisico di libri. Un bacio alla mia compagna si mescola al mio naso affondato tra le pagine. E i pezzi sembrano tornare al loro posto.
sabato 30 ottobre 2010
Sto tornando
Dopo un mese di silenzio sto ricaricando le armi. Ho deciso che la diplomazia è la virtù dei deboli. Dopo 24 anni di onorato mestiere credo di potermi levare qualche sassolino dalla scarpa.
Stay tuned
Stay tuned
domenica 26 settembre 2010
Le responsabilità del lettore
E domani, per dare fiato alle nostre casse che languono, aspettiamo l'uscita del nuovo libro di Ken Follett. Cosa dire? Fino a quando alcuni titoli funzioneranno come droga e alcuni lettori saranno come tossici in crisi di astinenza questa sarà la soluzione per pagarci gli affitti. In un circolo vizioso di aria fritta data in pasto a stomaci vuoti. Certo ci vuole coraggio per pubblicare libri degni di questo nome ma ce ne vuole altrettanto per leggere libri degni di questo nome. Fino a quando entrerà in libreria un lettore tipo quello di ieri che, dopo averci fatto tirare fuori una ventina di testi, se ne esce dicendo: "Ora vado a informarmi sui giornali per vedere cosa merita davvero di essere letto" credo che non cambierà nulla. Ormai il pantano del mondo editoriale sta trascinando le intelligenze in un buco nero di giàvistogiàlettogiàstampato. In un perpetuarsi senza soluzione di continuità di roba tagliata male (tanto per restare nella metafora della tossicodipendenza). Perché l'abitudine al leggere solo ciò che si conosce è una vera e propria forma di dipendenza. E la necessità di una cura disintossicante deve essere avvertita dal tossico in primis, cioè dal lettore.
Le responsabilità del lettore
E domani, per dare fiato alle nostre casse che languono, aspettiamo l'uscita del nuovo libro di Ken Follett. Cosa dire? Fino a quando alcuni titoli funzioneranno come droga e alcuni lettori saranno come tossici in crisi di astinenza questa sarà la soluzione per pagarci gli affitti. In un circolo vizioso di aria fritta data in pasto a stomaci vuoti. Certo ci vuole coraggio per pubblicare libri degni di questo nome ma ce ne vuole altrettanto per leggere libri di questo nome. Fino a quando entrerà in libreria un lettore tipo quello di ieri che, dopo averci fatto tirare fuori una ventina di testi, se ne esce dicendo: "Ora vado a informarmi sui giornali per vedere cosa merita davvero di essere letto" credo che non cambierà nulla. Ormai il pantano del mondo editoriale sta trascinando le intelligenze in un buco nero di giàvistogiàlettogiàstampato. In un perpetuarsi senza soluzione di continuità di roba tagliata male (tanto per restare nella metafora della tossicodipendenza). Perché l'abitudine al leggere solo ciò che si conosce è una vera e propria forma di dipendenza. E la necessità di una cura disintossicante deve essere avvertita dal tossico in primis, cioè dal lettore.
sabato 25 settembre 2010
C'è bisogno di aria nuova
Continuo, in questi giorni, il mio viaggio nella rete alla ricerca di scritti, editori e materiale letterario sconosciuto ai più. E mi riconfermo nell'idea che gente che sa scrivere non ce n'è pochissima. Mi scarico, dove possibile, pdf di libri, capitoli, racconti e vengo assalita dalla rabbia. Rabbia nel constatare come la maggior parte di loro non arriverà mai in libreria. Rabbia per lo schifo che avvolge e permea di sé la percezione che sempre più ho del mio mestiere, che è, appunto quello del libraio. Sempre più vittime o complici di un'editoria del nulla, storie sempre uguali, inutile e scritte spesso male. Difficile trovare un guizzo di novità, di ricerca. Vere e proprie nullità letterarie gonfie e tronfie del marchio editoriale blasonato con cui escono dall'anonimato a cui sarebbero più giustamente destinate. Ma si sa, piove sempre sul bagnato. Allora continuiamo a vendere sempre le stesse cose: vampiri, figli abbandonati che vengono ritrovati dopo secoli, bambini seviziati in qualche bosco scandinavo che fa tanto nordico modaiolo, madri cattive che muoiono distrutte da un inguaribile senso di colpa. Perpetuiamo questo mercato del niente che però non costa quanto meriterebbe. Ventiquattro, venticinque euro per acquistare un prezioso volume di 'monnezza letteraria. E intanto un fiume carsico di cose belle e degne che restano pubblicate solo su qualche glorioso blog e da qualche coraggioso piccolo editore. Piccolo non è un giudizio di valore, solo una constatazione legata agli standard della più bieca visibilità. E intanto i lettori, inermi e pigri continuano a farsi anestetizzare il gusto dall'editoria del livellamento. Ma siccome non accetto questo stato di cose vi segnalo il sito di Vibrisse su cui potete trovare alcuni racconti degni di attenzione. Se non vi accontentate delle classifiche di vendita che stanno alla vera letteratura come i surgelati al cibo di stagione
martedì 31 agosto 2010
Una rete di qualità
Ieri ho inviato una mail ad alcuni editori piccoli e di qualità per far loro questa proposta: una serie di presentazioni e serate di lettura dei loro testi nella mia libreria Il Trittico e di intitolare questa iniziativa "Il Trittico con i piccoli editori". Sull'onda delle riflessioni che sto facendo negli ultimi giorni vorrei trovare il modo di creare una rete di voci alternative, nei contenuti e nei modi di comunicare. Non si tratta di entrare nel circolo vizioso della competizione. Noi, come piccola libreria non siamo in competizione con i grandi gruppi e i piccoli editori non sono in competizione con i colossi dell'editoria. Si tratta di cercare percorsi diversi, di districarsi attraverso logiche di mercato che oscurano, con la loro massiccia ombra, proposte e progetti centrifughi rispetto al solito. Essere piccoli può non essere uno svantaggio se vuol dire diventare dinamici, flessibili e più efficaci nel muoversi. Nessuno di noi può permettersi passaggi televisivi, interviste blasonate e posti privilegiati nelle stanze che contano. Vogliamo provarci?
Piccoli editori: andiamo avanti a parlarne?
Sono contenta che i miei due precedenti post abbiano avuto qualche riscontro. Devo dire che fare i librai diviene ogni giorno di più un esercizio di ricerca di senso. Interrogarsi su cosa si sta vendendo non è più una domanda oziosa. Straripa dalle pieghe di un disagio che, almeno per quanto mi riguarda, sta diventando ogni giorno più incontenibile. Troppo marketing, troppi conti da far quadrare, troppe legiche commerciali slegate dal senso etico di questo mestiere. Il problema della visibilità sta diventando troppo preponderante in un mondo che dovrebbe essere più portato, per sensibilità e predisposizione, ad una valorizzazione dei contenuti. Un baraccone pieno di parole vuote o, al massimo, piene di niente. Però penso anche che, come si augura Vila Matas, si riesca ad uscire dalla logica del best seller anche grazie a lettori più attenti. Forse è come parlare del sesso degli angeli, ma la gente legge quello che trova e l'editoria (nella maggior parte dei casi) anestetizza le capacità critiche. È altrettanto vero e triste che questi due elementi viaggiano in una colpevole complicità. E, come diceva la Yourcenar nel suo meraviglioso Memorie di Adriano "Non c'è niente di più volgare dei nostri complici"
lunedì 30 agosto 2010
Piccoli è bello
Nel post di ieri segnalavo alcune case editrici piccole e di gran valore. Case editrici che combattono ad armi impari con i colossi. Hanno, spesso, come principale canale comunicativo internet con tutte le sue potenzialità. Devo ammettere però che fare la libraia e non avere mai trovato un rappresentante che me ne parlasse in modo poco più che affrettato e frettoloso un po' mi inquieta. Mi pongo sempre più domande su cosa voglia dire fare i librai e su cosa sia l'editoria in questo paese. Comunque oggi vorrei segnalare altri editori di cui mi piacerebbe riempire gli scaffali di questa mia libreria virtuale. Cominciamo con Edizioni della Sera, giovane ed intraprendente casa editrice romana. Date poi un'occhiata ai siti di Neo edizioni e Gaffi e sfogliate i loro cataloghi. Un po' d'aria fresca signori!
domenica 29 agosto 2010
Fino a quando c'è buona editoria c'è speranza
Questa mattina stavo consultando i cataloghi on line di alcune case editrici. Questo lavoro mi serve per alcuni progetti editoriali e librari che vorrei realizzare nei prossimi mesi. Devo dire che ho avuto delle bellissime sorprese. Ci sono, in Italia, case editrici davvero ottime, innovatrici, vivaci. Che fanno davvero ricerca, che fanno davvero lavoro editoriale. Purtroppo sono oscurate dallo strapotere mediatico dei così detti grandi. Io vi consiglio con molto entusiasmo di consultare il link delle prime tre che ho visionato oggi. La prima è la casa editrice Las Vegas. Potete scaricare alcune pagine dei libri in catalogo. La stessa cosa potete farla consultando il catalogo di Transeuropa casa editrice di tondelliana memoria. E poi fate un giro tra le pagine web di Galaad Edizioni. Io sono emozionata dalle scoperte letterarie fatte fino a questo momento. Nei prossimi giorni altre indicazioni su altri giacimenti di letteratura di qualità.
giovedì 26 agosto 2010
Recensioni e neurolinguistica
Alcuni miei articoli pubblicati sul sito della Palestra della scrittura. Un laboratorio in continua ricerca, una rete di collaboratori che studiano, lavorano e si allenano sul ring della parola e della comunicazione.
Questo un articolo su un libro molto interessante e cioé Un matematico legge i giornali. Credo sia sempre più importante leggere le notizie stando sempre vigili e attenti al modo in cui ci vengono propinate.
Poi vorrei proporvi un altro articolo che mi è stato ispirato dalla lettura di quello che, per me, è il capolavoro di Emmanuel Carrere. Si tratta di Romanzo russo, pubblicato qualche mese fa da Einaudi. Non sono già più considerate novità editoriali (i mesi nell'editoria ormai hanno valore di anni) ma io vi consiglio di procurarveli e leggerli
Questo un articolo su un libro molto interessante e cioé Un matematico legge i giornali. Credo sia sempre più importante leggere le notizie stando sempre vigili e attenti al modo in cui ci vengono propinate.
Poi vorrei proporvi un altro articolo che mi è stato ispirato dalla lettura di quello che, per me, è il capolavoro di Emmanuel Carrere. Si tratta di Romanzo russo, pubblicato qualche mese fa da Einaudi. Non sono già più considerate novità editoriali (i mesi nell'editoria ormai hanno valore di anni) ma io vi consiglio di procurarveli e leggerli
mercoledì 25 agosto 2010
Viaggio per librerie
Il mio viaggio per librerie prosegue disordinato, come la mia vita. Dovevano essere librerie europee e invece eccomi già di ritorno in Italia. Perché considerare solo l'estero? Allora torniamo un attimo a casa e andiamo a Viterbo. La Libreria del Teatro per me è stata una bella scoperta. Ci sono affezionata. Per tanti motivi
Alcune mie passate recensioni
Di questo libro, secondo me, non si è parlato abbastanza. Peccato
Gianni Canova è uomo di cinema e studioso di immagini; anche non conoscendo la sua specificità professionale, lo si sarebbe intuito leggendo il suo esordio letterario. Palpebre è una spietata lettura del mondo contemporaneo mascherata da thriller. Un libro duro, estremo, a tratti violento. Ma di una violenza non gratuita. Semmai inestricabile e funzionale alla storia. Un viaggio in quelle zone poco illuminate dell'animo e che solo uno sforzo di onestà intellettuale può portare a farci ammettere non essere estranee a nessuno di noi. Guardare, essere guardati, deformare il corpo fino all'estremo sono gli agganci narrativi che Canova utilizza per raccontarci altro.
Giovanni Vigo, giornalista e studioso di Dante, si trova coinvolto in una storia al limite del grottesco se non fosse così straniante e spaventosa. Uno sguardo non dato a una bellissima sconosciuta diventa una pericolosa ossessione. Inizia un'indagine aiutato dall'amico Simmel, giornalista di Radio Popolare. Si troveranno così immersi in una vicenda di video estremi e orrendi omicidi.
La trama di per sé non regala niente di nuovo se non fosse per la costruzione perfetta e per l'immediata sensazione che ci sia dell'altro. Canova conosce molto bene il cinema e costruisce un romanzo che, non a caso, si guarda più che leggerlo. E questo penso sia il più sottile espediente interpretativo oltre che narrativo dell'autore. Come se avesse voluto usare un eccesso visivo proprio per metterci in guardia dall'eccesso stesso.
I tempi, i dialoghi si susseguono con maestria portandoci all'interno di un meccanismo più che di una storia. E questo credo sia un elemento di estremo interesse in questo libro. Un meccanismo, antico e attualissimo insieme, non estraneo ai feroci e violenti dipinti del Caravaggio o alla pratica della cucitura delle ciglia di cui parlava Dante. Inserti colti che l'autore mette tra le pagine proprio come fossero altri fotogrammi in un continuum filmico cartaceo. Insisto su questo elemento perché la cifra del libro ritengo sia esattamente questa. Fino a che punto si è disposti ad arrivare prima di avvertire come intollerabile ciò che si sta guardando? Quando un'immagine diventa così violenta da indurci a chiudere gli occhi? E quando e come, purtroppo, un'immagine mostruosa diventa così eccitante da incollare il nostro sguardo ad essa fino a farla diventare una cosa normale?
Non a caso il libro si svolge in uno spazio temporale molto breve che ha come sfondo la visione del film di Tarantino Kill Bill (scelta non casuale), le immagini delle decapitazioni degli ostaggi occidentali durante la guerra in Iraq e le trasmissioni televisive tanto più volgari e violente quanto più "dolcemente" pericolose nella loro "normalità". Il messaggio che viene suggerito in questo testo è proprio la valenza politica di ciò che si guarda e del modo in cui lo si fa. Quando subentra una sorta di assuefazione che spinge a voler guardare qualcosa di ancora più orribile vuol dire che il virus della complicità è già in circolo.
Allora il piacere anche sessuale di guardare un corpo mostruoso (nel senso etimologico del termine) entra a far parte di un meccanismo che spinge troppo al di fuori di noi la nostra capacità di critica. Da qui la pratica di cucire le ciglia, di cui parlava Dante, per punire chi non si era guardato abbastanza dentro. Occhi, sguardi, visione, televisione; tutto sembra concorrere a sopire i cervelli.
Non per nulla ho iniziato dicendo che questo libro sembra essere un pamphlet sotto forma di romanzo. Un messaggio altro veicolato da immagini più immediatamente fruibili. E forse è proprio a questo meccanismo che l'autore suggerisce di prestare attenzione. Perché il guardare non è mai un atto neutro. Nell'estetica c'è sempre un'etica. Nelle immagini che spesso sembrano fatte apposta per portare a una visione standardizzata e becera, unica e senza sussulti di coscienza, si cela spesso un messaggio subliminale. Se da questo è difficile sfuggire, proprio perché subliminale, è bene però esserne almeno consapevoli.
Da questo pericolo non è esente neanche il sesso. L'elemento che più dovrebbe renderci unici, innalzarci per un istante al di sopra dell' uniformità, diviene parte di un ingranaggio consumistico. Come se anche il sesso guardasse e volesse essere guardato: senza essere davvero visto.
Un altro meccanismo su cui vorrei soffermarmi è proprio la reiterazione delle immagini. Questo libro è ovviamente composto da tante vicende, dettagli, particolari. Eppure, dopo averlo letto, sembra che attaccate al ricordo rimangano solo le impressioni di rocambolesco e quindi quasi ironico cinismo. Come ad un certo punto del film Kill Bill veniva quasi da ridere davanti a tanta violenza sopra le righe, così in questo libro viene la tentazione di relegare il tutto dietro un ghigno distaccato.
Questo è il potere pericoloso delle immagini. Tanto più vengono guardate quanto più diventano un supporto imprescindibile per vivere anche ciò che di immagini potrebbe fare a meno. Per lo meno di immagini indotte, che diventano una sorta di immagini autoreferenziali. Credo che Canova abbia davvero colto nel segno scrivendo un libro che potrebbe avere, come equivalente cinematografico, un film che narri la storia della preparazione di un film. O una trasmissione televisiva il cui plot sia il dietro le quinte della realizzazione di una trasmissione televisiva. Immagini che vivono e si nutrono di sé stesse e di sguardi conniventi e passivi.
Questo testo potrebbe essere tenuto accanto ad altri libri, come suggestione dopo che si è visitata una mostra, dopo essere stati al cinema, davanti alla televisione. Il tarlo del dubbio che insinua è trasversale e interdisciplinare. Tutto ciò che richiede, nella fruizione, una percentuale più o meno preponderante di visione dovrebbe tenere conto di un modo di guardare diverso. Un modo che lasci spazio alla coscienza critica e che non diventi solo un enorme occhio che tutto tiene sotto controllo per non vedere ciò che sempre interroga se lo si guarda davvero.
Non sembri troppo forzato ritenere che ciò che si guarda non sia esente dalle storture consumistiche.
Gianni Canova è uomo di cinema e studioso di immagini; anche non conoscendo la sua specificità professionale, lo si sarebbe intuito leggendo il suo esordio letterario. Palpebre è una spietata lettura del mondo contemporaneo mascherata da thriller. Un libro duro, estremo, a tratti violento. Ma di una violenza non gratuita. Semmai inestricabile e funzionale alla storia. Un viaggio in quelle zone poco illuminate dell'animo e che solo uno sforzo di onestà intellettuale può portare a farci ammettere non essere estranee a nessuno di noi. Guardare, essere guardati, deformare il corpo fino all'estremo sono gli agganci narrativi che Canova utilizza per raccontarci altro.
Giovanni Vigo, giornalista e studioso di Dante, si trova coinvolto in una storia al limite del grottesco se non fosse così straniante e spaventosa. Uno sguardo non dato a una bellissima sconosciuta diventa una pericolosa ossessione. Inizia un'indagine aiutato dall'amico Simmel, giornalista di Radio Popolare. Si troveranno così immersi in una vicenda di video estremi e orrendi omicidi.
La trama di per sé non regala niente di nuovo se non fosse per la costruzione perfetta e per l'immediata sensazione che ci sia dell'altro. Canova conosce molto bene il cinema e costruisce un romanzo che, non a caso, si guarda più che leggerlo. E questo penso sia il più sottile espediente interpretativo oltre che narrativo dell'autore. Come se avesse voluto usare un eccesso visivo proprio per metterci in guardia dall'eccesso stesso.
I tempi, i dialoghi si susseguono con maestria portandoci all'interno di un meccanismo più che di una storia. E questo credo sia un elemento di estremo interesse in questo libro. Un meccanismo, antico e attualissimo insieme, non estraneo ai feroci e violenti dipinti del Caravaggio o alla pratica della cucitura delle ciglia di cui parlava Dante. Inserti colti che l'autore mette tra le pagine proprio come fossero altri fotogrammi in un continuum filmico cartaceo. Insisto su questo elemento perché la cifra del libro ritengo sia esattamente questa. Fino a che punto si è disposti ad arrivare prima di avvertire come intollerabile ciò che si sta guardando? Quando un'immagine diventa così violenta da indurci a chiudere gli occhi? E quando e come, purtroppo, un'immagine mostruosa diventa così eccitante da incollare il nostro sguardo ad essa fino a farla diventare una cosa normale?
Non a caso il libro si svolge in uno spazio temporale molto breve che ha come sfondo la visione del film di Tarantino Kill Bill (scelta non casuale), le immagini delle decapitazioni degli ostaggi occidentali durante la guerra in Iraq e le trasmissioni televisive tanto più volgari e violente quanto più "dolcemente" pericolose nella loro "normalità". Il messaggio che viene suggerito in questo testo è proprio la valenza politica di ciò che si guarda e del modo in cui lo si fa. Quando subentra una sorta di assuefazione che spinge a voler guardare qualcosa di ancora più orribile vuol dire che il virus della complicità è già in circolo.
Allora il piacere anche sessuale di guardare un corpo mostruoso (nel senso etimologico del termine) entra a far parte di un meccanismo che spinge troppo al di fuori di noi la nostra capacità di critica. Da qui la pratica di cucire le ciglia, di cui parlava Dante, per punire chi non si era guardato abbastanza dentro. Occhi, sguardi, visione, televisione; tutto sembra concorrere a sopire i cervelli.
Non per nulla ho iniziato dicendo che questo libro sembra essere un pamphlet sotto forma di romanzo. Un messaggio altro veicolato da immagini più immediatamente fruibili. E forse è proprio a questo meccanismo che l'autore suggerisce di prestare attenzione. Perché il guardare non è mai un atto neutro. Nell'estetica c'è sempre un'etica. Nelle immagini che spesso sembrano fatte apposta per portare a una visione standardizzata e becera, unica e senza sussulti di coscienza, si cela spesso un messaggio subliminale. Se da questo è difficile sfuggire, proprio perché subliminale, è bene però esserne almeno consapevoli.
Da questo pericolo non è esente neanche il sesso. L'elemento che più dovrebbe renderci unici, innalzarci per un istante al di sopra dell' uniformità, diviene parte di un ingranaggio consumistico. Come se anche il sesso guardasse e volesse essere guardato: senza essere davvero visto.
Un altro meccanismo su cui vorrei soffermarmi è proprio la reiterazione delle immagini. Questo libro è ovviamente composto da tante vicende, dettagli, particolari. Eppure, dopo averlo letto, sembra che attaccate al ricordo rimangano solo le impressioni di rocambolesco e quindi quasi ironico cinismo. Come ad un certo punto del film Kill Bill veniva quasi da ridere davanti a tanta violenza sopra le righe, così in questo libro viene la tentazione di relegare il tutto dietro un ghigno distaccato.
Questo è il potere pericoloso delle immagini. Tanto più vengono guardate quanto più diventano un supporto imprescindibile per vivere anche ciò che di immagini potrebbe fare a meno. Per lo meno di immagini indotte, che diventano una sorta di immagini autoreferenziali. Credo che Canova abbia davvero colto nel segno scrivendo un libro che potrebbe avere, come equivalente cinematografico, un film che narri la storia della preparazione di un film. O una trasmissione televisiva il cui plot sia il dietro le quinte della realizzazione di una trasmissione televisiva. Immagini che vivono e si nutrono di sé stesse e di sguardi conniventi e passivi.
Questo testo potrebbe essere tenuto accanto ad altri libri, come suggestione dopo che si è visitata una mostra, dopo essere stati al cinema, davanti alla televisione. Il tarlo del dubbio che insinua è trasversale e interdisciplinare. Tutto ciò che richiede, nella fruizione, una percentuale più o meno preponderante di visione dovrebbe tenere conto di un modo di guardare diverso. Un modo che lasci spazio alla coscienza critica e che non diventi solo un enorme occhio che tutto tiene sotto controllo per non vedere ciò che sempre interroga se lo si guarda davvero.
Non sembri troppo forzato ritenere che ciò che si guarda non sia esente dalle storture consumistiche.
Alcune mie recensioni
Approfitto per consigliarvi la lettura di questo blog Sul Romanzo, perché è molto interessante, molto ben fatto e poi ci scrivo anch'io. Da qualche mese il blog è diventato anche una rivista bimestrale. Per chi non lo conoscesse ripropongo alcune delle mie recensioni pubblicate nei mesi scorsi. Mi concedo un pizzico di autocelebrazione. Buona lettura
Il viaggio del signor Raminet. Daniel Rocher. Edizioni Barbes
La potenza della letteratura non risiede tanto nell'inaudito di ciò che racconta, ma nel modo in cui lo fa. E questo libro ne è l'ulteriore dimostrazione. Non c'è niente di nuovo nel raccontare una vita tranquilla, apparentemente monotona, sconvolta da un incontro che apre le finestre a correnti d'aria impreviste. Ma questo signor Raminet continua a farci compagnia per un po' dopo averlo conosciuto. Anziano professore di diritto, giunto alla pensione, compra la sua prima macchina e parte per la Bretagna, sua terra d'origine. Strada facendo incontrerà una giovane e vitale autostoppista americana e, inaspettatamente anche per lui, si unirà a lei in un viaggio di scoperta, e riscoperta, della vita. Il signor Raminet ha uno sguardo sul mondo gentile e timido, difeso con leggerezza ed eleganza da un linguaggio d'altri tempi. Come se il suo modo di parlare lo mettesse al riparo da pericolose contaminazione linguistiche ed esistenziali. Ma dal momento che la vita sembra spesso avere un percorso autonomo dalle nostre intenzioni, il professore avrà modo di accorgersi che gli incontri, quelli riusciti, non hanno bisogno di difese. Ci si accoglie reciprocamente, ci si cambia senza violenza, ci si regalano parole nuove e diverse. Jane, la giovane americana, non è solo bella, ha una risata calda e viva e una curiosità per cose e persone su cui naviga con leggerezza. Felix Raminet si sente riconosciuto, in qualche modo, da questa giovane donna, prova la nuova sensazione di non dover giustificare la sua età e il suo modo di esprimersi, la sua timidezza e il suo andare in confusione come un ragazzino. Dopo una vita di obblighi e orari rigidi e sempre uguali l'anziano professore sente con naturalezza l'esigenza di movimento fisico ed esistenziale e il viaggio in macchina comincia con un prudente rodaggio di entrambi. In fondo sono ambedue nuovi sulla strada e la velocità deve essere controllata. Ma un percorso lento e nella corsia più a destra non impedisce di proseguire qualcosa che non si può fermare. Teneri ed esilaranti gli incontri che arrivano così, non cercati. I poliziotti che lo redarguiscono perché si è addormentato lungo il ciglio dell'autostrada, diventano per lui un dispositivo di parola, un'occasione di scambio. Poco importa che lui attribuisca loro intenzioni amichevoli e affettuose che essi non hanno. La sua delicatezza non riesce a lasciare immutati coloro che incontra. E lui stesso, attraverso gli incontri, scopre in sé forze e risorse sopite sotto strati di polvere. Si potrebbe dire che nella vita di Raminet abbia fatto, finalmente, la sua comparsa il malinteso, l'equivoco, a rendere impossibile che cose, parole e persone coincidano in una trama prevedibile. E così diventa possibile che un professore anziano divenga interlocutore prezioso e nuovo per una ragazza poco più che ventenne. Sì, perché anche per Jane quest'uomo rappresenta un'occasione per venire spiazzata. Spiazzata non dalla mancanza di desiderio che lei vede negli occhi di Felix (suvvia niente bigottismi) ma dalla leggerezza con cui lui riesce a tenere confinato, per un po', questo desiderio nei più rassicuranti territori della galanteria. Viaggiano fianco a fianco raccontandosi con tranquillità senza il peso di banali aspettative. Il professore, che è tornato in Bretagna per trovare parenti e amici sente l'aria frizzante che si respira quando ci si presenta loro con una sorpresa. Jane lo è ma non nel senso di essere un oggettino carino e molto poco assomigliante all'immagine di Felix che tutti hanno. E' una sorpresa per Felix per primo che, in fondo non sente l'esigenza di spiegare più di tanto come si siano conosciuti e perché stiano viaggiando insieme. Questa è la novità nella vita del protagonista, questo sentirsi a posto con ciò che gli sta attorno. Talmente a posto che persone e cose del passato non vengono vissute come qualcosa da recuperare necessariamente ma come tappe di un percorso. Niente di più e niente di meno. L'anziano professore si scopre tutt'altro che inerme, il suo cuore torna a vivere e lo fa anche il suo corpo. Certo, ci sarà anche una notte d'amore con Jane, una sola, tutt'altro che banale e scontata. Proprio perché per entrambi è anche un incontro di corpi, perché no? Felix si ritrova dopo i baci e le carezze, senza fiato. Ed è proprio una sensazione fisica quella che prevale, non inutilmente ammantata da una nobiltà pelosa e ipocrita. La nobiltà è proprio in ciò che questa notte ha rappresentato e cioè un pensiero che torna a muoversi grazie a un corpo che ha cominciato a farlo. Perché no? Il viaggio da Parigi alla Bretagna non è un viaggio a ritroso proprio per questo, non offre origini a cui tornare ma sguardi inediti su cose che Felix credeva di sapere. Se devo fare un appunto a questo libro riguarda la traduzione. E dispiace perché Barbes è una casa editrice di qualità e coraggiosa
Il viaggio del signor Raminet. Daniel Rocher. Edizioni Barbes
La potenza della letteratura non risiede tanto nell'inaudito di ciò che racconta, ma nel modo in cui lo fa. E questo libro ne è l'ulteriore dimostrazione. Non c'è niente di nuovo nel raccontare una vita tranquilla, apparentemente monotona, sconvolta da un incontro che apre le finestre a correnti d'aria impreviste. Ma questo signor Raminet continua a farci compagnia per un po' dopo averlo conosciuto. Anziano professore di diritto, giunto alla pensione, compra la sua prima macchina e parte per la Bretagna, sua terra d'origine. Strada facendo incontrerà una giovane e vitale autostoppista americana e, inaspettatamente anche per lui, si unirà a lei in un viaggio di scoperta, e riscoperta, della vita. Il signor Raminet ha uno sguardo sul mondo gentile e timido, difeso con leggerezza ed eleganza da un linguaggio d'altri tempi. Come se il suo modo di parlare lo mettesse al riparo da pericolose contaminazione linguistiche ed esistenziali. Ma dal momento che la vita sembra spesso avere un percorso autonomo dalle nostre intenzioni, il professore avrà modo di accorgersi che gli incontri, quelli riusciti, non hanno bisogno di difese. Ci si accoglie reciprocamente, ci si cambia senza violenza, ci si regalano parole nuove e diverse. Jane, la giovane americana, non è solo bella, ha una risata calda e viva e una curiosità per cose e persone su cui naviga con leggerezza. Felix Raminet si sente riconosciuto, in qualche modo, da questa giovane donna, prova la nuova sensazione di non dover giustificare la sua età e il suo modo di esprimersi, la sua timidezza e il suo andare in confusione come un ragazzino. Dopo una vita di obblighi e orari rigidi e sempre uguali l'anziano professore sente con naturalezza l'esigenza di movimento fisico ed esistenziale e il viaggio in macchina comincia con un prudente rodaggio di entrambi. In fondo sono ambedue nuovi sulla strada e la velocità deve essere controllata. Ma un percorso lento e nella corsia più a destra non impedisce di proseguire qualcosa che non si può fermare. Teneri ed esilaranti gli incontri che arrivano così, non cercati. I poliziotti che lo redarguiscono perché si è addormentato lungo il ciglio dell'autostrada, diventano per lui un dispositivo di parola, un'occasione di scambio. Poco importa che lui attribuisca loro intenzioni amichevoli e affettuose che essi non hanno. La sua delicatezza non riesce a lasciare immutati coloro che incontra. E lui stesso, attraverso gli incontri, scopre in sé forze e risorse sopite sotto strati di polvere. Si potrebbe dire che nella vita di Raminet abbia fatto, finalmente, la sua comparsa il malinteso, l'equivoco, a rendere impossibile che cose, parole e persone coincidano in una trama prevedibile. E così diventa possibile che un professore anziano divenga interlocutore prezioso e nuovo per una ragazza poco più che ventenne. Sì, perché anche per Jane quest'uomo rappresenta un'occasione per venire spiazzata. Spiazzata non dalla mancanza di desiderio che lei vede negli occhi di Felix (suvvia niente bigottismi) ma dalla leggerezza con cui lui riesce a tenere confinato, per un po', questo desiderio nei più rassicuranti territori della galanteria. Viaggiano fianco a fianco raccontandosi con tranquillità senza il peso di banali aspettative. Il professore, che è tornato in Bretagna per trovare parenti e amici sente l'aria frizzante che si respira quando ci si presenta loro con una sorpresa. Jane lo è ma non nel senso di essere un oggettino carino e molto poco assomigliante all'immagine di Felix che tutti hanno. E' una sorpresa per Felix per primo che, in fondo non sente l'esigenza di spiegare più di tanto come si siano conosciuti e perché stiano viaggiando insieme. Questa è la novità nella vita del protagonista, questo sentirsi a posto con ciò che gli sta attorno. Talmente a posto che persone e cose del passato non vengono vissute come qualcosa da recuperare necessariamente ma come tappe di un percorso. Niente di più e niente di meno. L'anziano professore si scopre tutt'altro che inerme, il suo cuore torna a vivere e lo fa anche il suo corpo. Certo, ci sarà anche una notte d'amore con Jane, una sola, tutt'altro che banale e scontata. Proprio perché per entrambi è anche un incontro di corpi, perché no? Felix si ritrova dopo i baci e le carezze, senza fiato. Ed è proprio una sensazione fisica quella che prevale, non inutilmente ammantata da una nobiltà pelosa e ipocrita. La nobiltà è proprio in ciò che questa notte ha rappresentato e cioè un pensiero che torna a muoversi grazie a un corpo che ha cominciato a farlo. Perché no? Il viaggio da Parigi alla Bretagna non è un viaggio a ritroso proprio per questo, non offre origini a cui tornare ma sguardi inediti su cose che Felix credeva di sapere. Se devo fare un appunto a questo libro riguarda la traduzione. E dispiace perché Barbes è una casa editrice di qualità e coraggiosa
martedì 24 agosto 2010
Il giro del mondo in libreria
Restiamo in area anglofona ma torniamo un attimo nella vecchia Europa. Questa è una libreria in Grafton Street, la via principale di Dublino. Una libreria dalla lunga storia. Niente di romanticamente polveroso. Ma visiteremo anche botteghe di quel tipo. Qui entriamo alla Dubray Books tappa obbligata per gli amanti del libro in visita nella capitale irlandese. L'Irlanda comunque ci offrirà molte chicche da visitare. per ora buona visione
lunedì 23 agosto 2010
Comincia il viaggio
St Mark Bookshoop http://www.stmarksbookshop.com/welcome-st-marks-bookshop libreria di New York in cui, senza rendermene conto, ho trascorso quasi tre ore. La cosa che ho trovato insolita, almeno rispetto alle librerie italiane, è stato il fatto di incontrare all'ingresso i libri di saggistica e non di narrativa. Credo che questo la dica lunga su cosa voglia dire fare il libraio a New York. Poche pile di libri, la maggior parte singole copie a scaffale. Buona visione
L'assaggiatrice
L'assaggiatrice
Giuseppina Torregrossa sa scrivere e, molto probabilmente sa cucinare. Le due cose vanno di pari passo nelle parole appassionate di questa donna. Sì, c'è sole, caldo, passione e corpo in questo racconto lungo e nelle ricette che ne fanno da sfondo. Si potrebbe dire anche il contrario e cioè che il racconto fa da sfondo alle ricette. Non è così facile districare il piacere che danno le une e le altre.
La protagonista, abbandonata dal marito, non si perde d'animo. Apre una bottega nel suo paese e comincia a nutrire la sua e le altrui bocche di cibo e baci. Impasta, taglia, condisce le pietanze con la stessa foga vitale usata per amare i corpi degli uomini. C'è profumo di sud e di donna in ciascuna pagina di questo libro. Il riverbero di una calda giornata di sole esce dalla carta e arriva al palato prima che agli occhi.
Mentre lo si legge sembra quasi di ritrovarsi le mani pregne di verdure e olio, profumi e spezie. La donna muove il suo corpo al ritmo delle braccia che impastano e al ritmo del sesso che riscopre nell'abbandono. La sua bottega diviene un punto di incontro, chiacchiere, ristoro e carnalità. Attorno a lei un paese con personaggi più veri del vero, sguardi avvolgenti come un corpo sudato, come un vino fresco e consolatorio.
Sesso e cibo, cibo e sesso. Gioia, gioco e gusto. Cosa è del resto la cucina? Cosa è del resto la letteratura? Le ricette descritte, suggerite e raccontate hanno la grazia della bellezza improvvisa. Esattamente come quella di una bella pagina. I sensi coinvolti sono sempre quelli, molto più fisici di quanto non sembri.
Qualcosa di diverso da un libro di narrativa e di diverso da un libro di cucina. La Torregrossa compie la magia di avvolgere il cibo in una narrazione e la narrazione in un continuo assaggio. Cibo e letteratura sono molto più vicini di quanto uno snobistico purismo potrebbe far credere. Leggete questo libro e provate a cucinare le ricette che vi racconta. Fatelo immaginando questa donna morbida e sensuale che tratta il cibo come fonte di vita e di storie. E poi, mentre cucinate raccontatevi delle storie. E sentite il vostro corpo. Questo, in fondo, è il messaggio più potente del libro.
Buon appetito
Giuseppina Torregrossa sa scrivere e, molto probabilmente sa cucinare. Le due cose vanno di pari passo nelle parole appassionate di questa donna. Sì, c'è sole, caldo, passione e corpo in questo racconto lungo e nelle ricette che ne fanno da sfondo. Si potrebbe dire anche il contrario e cioè che il racconto fa da sfondo alle ricette. Non è così facile districare il piacere che danno le une e le altre.
La protagonista, abbandonata dal marito, non si perde d'animo. Apre una bottega nel suo paese e comincia a nutrire la sua e le altrui bocche di cibo e baci. Impasta, taglia, condisce le pietanze con la stessa foga vitale usata per amare i corpi degli uomini. C'è profumo di sud e di donna in ciascuna pagina di questo libro. Il riverbero di una calda giornata di sole esce dalla carta e arriva al palato prima che agli occhi.
Mentre lo si legge sembra quasi di ritrovarsi le mani pregne di verdure e olio, profumi e spezie. La donna muove il suo corpo al ritmo delle braccia che impastano e al ritmo del sesso che riscopre nell'abbandono. La sua bottega diviene un punto di incontro, chiacchiere, ristoro e carnalità. Attorno a lei un paese con personaggi più veri del vero, sguardi avvolgenti come un corpo sudato, come un vino fresco e consolatorio.
Sesso e cibo, cibo e sesso. Gioia, gioco e gusto. Cosa è del resto la cucina? Cosa è del resto la letteratura? Le ricette descritte, suggerite e raccontate hanno la grazia della bellezza improvvisa. Esattamente come quella di una bella pagina. I sensi coinvolti sono sempre quelli, molto più fisici di quanto non sembri.
Qualcosa di diverso da un libro di narrativa e di diverso da un libro di cucina. La Torregrossa compie la magia di avvolgere il cibo in una narrazione e la narrazione in un continuo assaggio. Cibo e letteratura sono molto più vicini di quanto uno snobistico purismo potrebbe far credere. Leggete questo libro e provate a cucinare le ricette che vi racconta. Fatelo immaginando questa donna morbida e sensuale che tratta il cibo come fonte di vita e di storie. E poi, mentre cucinate raccontatevi delle storie. E sentite il vostro corpo. Questo, in fondo, è il messaggio più potente del libro.
Buon appetito
domenica 22 agosto 2010
La mia libreria
Mi piacerebbe che entraste in questa libreria Il trittico visto che è la mia. Se volete passare a trovarmi (anche solo virtualmente) ne sarò ben contenta. Se poi volete telefonarmi o scrivermi lo sarò ancora di più. Una bella chiacchierata non ha prezzo. Anche se poi, magari per la distanza, dovrete acquistare i vostri libri altrove io sarò ben contenta lo stesso. In fondo sono "solo" ventiquattro anni che faccio la consulente libresca. Ho scritto che prossimamente sul blog avrei fatto con voi il giro di alcune librerie europee che ho particolarmente amato, librerie in cui gli occhi mi sono rimasti impigliati agli scaffali. Questo giro non poteva non cominciare da qui.
sabato 21 agosto 2010
Niente cambia
Concedetemi un piccolo gesto di autoreferenzialità. Ripropongo ora un articolo pubblicato mesi fa sul blog Bookavenue riguardante la crisi delle librerie indipendenti. In quei mesi la chiusura di alcune librerie storiche aveva suscitato un certo clamore. Credo che, non solo non sia cambiato nulla nel frattempo, in compenso non se ne parla già più.
Lettera aperta di una libraia leggermente stanca
Mai come in questo ultimo periodo si sente parlare di crisi dell'editoria, di librerie che chiudono. Ha fatto scalpore, dando inizio al dibattito, la chiusura a Milano della storica libreria di Porta Romana. Da lì si è cominciato a parlare di librerie indipendenti schiacciate dai costi insostenibili, di gestione e affitti. Curioso che in un paese di non lettori ci si sia accorti all'improvviso di cosa voglia dire fare i librai. Cercherò di chiarire, soprattutto a me stessa, di cosa si sta parlando. Perché, a volte, ho la sensazione di trovarmi in una situazione ipocrita e mistificante. Come quando un anziano pone fine ai suoi giorni distrutto dalla solitudine e i parenti, che mai sono andati a trovarlo, piangono calde lacrime e vomitano parole di rimpianto. Intanto vediamo di capire cosa significa librerie indipendenti. Tecnicamente sono quelle librerie che non appartengono ai grandi gruppi editoriali. Nella sostanza sono quelle librerie che, proprio per questo, di indipendente non hanno proprio nulla. A partire da una politica di acquisti spesso sconsiderata per un malinteso senso di commercio e quindi di do ut des. E qui cominciano le dolenti note. Il vittimismo spesso nasconde una straordinaria incapacità imprenditoriale da parte degli stessi librai. Non di tutti per carità. Però è innegabile che, nel corso degli anni, noi librai per primi, abbiamo spesso consentito che editori e promotori comandassero in casa nostra. E il problema è diventato strutturale, non solo di scontistica. Succede che quando ci si crede più deboli dell'interlocutore si sia portati a ritenersi ricattabili. Certo lo sconto ha contribuito non poco a creare una situazione di sofferenza finanziare per molte librerie, ma spesso è diventato un comodo, per quanto comprensibile alibi, per non parlare di altri problemi. Uno su tutti è stato quello di considerare le librerie come magazzini degli editori. Obiettivi economici studiati a tavolino, con criteri di marketing spesso slegati dalle effettive capacità di assorbimento delle librerie, hanno portato editori e società di promozione a caricare i negozi di quantitò di libri assolutamente ridicole. Finendo con il creare un mercato dopato da cifre non corrispondenti all'effettivo giro d'affari. Il tutto aggravato da tempi di accredito delle rese decisamente lunghissimi e una conseguente esposizione bancaria da parte delle librerie troppo impegnativa. In Italia manca una seria e costruttiva sinergia tra editori e librerie come accade, per esempio, in Germania. L'editore fa i suoi piani di vendita, si affida alla promozione che, a sua volta, fa un badget. Quando la filiera arriva alla libreria questa si trova già, fisiologicamente, a dover farsi carico del piano marketing di due soggetti a lei estranei. Parlo per esperienza diretta. Per qualche tempo ho fatto la venditrice per un gruppo promozionale. Ci dicevano quali erano le previsioni di vendita dell'editore. Ad ogni libreria veniva abbinato un certo numero di copie. Se il libraio ne ordinava meno del previsto, l'obiettivo veniva raggiunto con un bell'invio d'ufficio. Così il libraio che ne aveva ordinate solo due, per esempio, se ne vedeva arrivare cinque. Le metteva subito in resa ma l'accredito, ovviamente, arrivava successivamente alla fattura relativa a quella fornitura. Cornuti e mazziati dunque. Questo accadeva e non era certo un'eccezione nella politica di vendita. A parte tutte le altre considerazioni viene anche spontaneo chiedersi a cosa servano i promotori. So che sto dicendo parole grosse ma davvero spesso, non sempre ovvio, alcuni di loro finiscono con il diventare dei semplici collettori di ordini. Girano con i loro copertinari relativi a libri di cui spesso non sono neanche riusciti a conoscere il contenuto. Il tutto che ricadute ha? Una catena di operatori e figure intermedie che certo non snelliscono i costi. Ci sono delle lodevoli eccezioni. Ed è bene sottolinearlo. Alcuni di questi promotori sono davvero dei preziosi interlocutori per noi librai ma, molti diventano, loro malgrado, dei semplici esecutori di strategie decise a tavolino da signori che della libreria non sanno molto. Ho letto in questi giorni sul blog di Sul Romanzo un post in cui si parlava di legittima esigenza del consumatore al risparmio. Ma i prezzi di copertina chi li fa? I librai o gli editori. E gli aggiornamenti di prezzo che settimanalmente arrivano per mail? Libri il cui prezzo aumenta di 1, 1.50, o anche 2 euro in una volta? E non si tratta di nuove edizioni, con nuove traduzioni o almeno nuove introduzioni. No no. Sono gli stessi libri. Molti di questi sono tascabili. I così detti "economici". Che arrivano a costare anche 13 o 14 euro. Economici? Tanto la faccia la mette il libraio che poi si sente chiedere (non sempre gentilmente) dal cliente alla cassa "mi fa lo sconto?" Se c'è una legittima esigenza di risparmio per i consumatori, c'è anche una legittima esigenza dei librai di essere considerati dei professionisti. E non sempre accade. Se alcuni clienti delle librerie che hanno chiuso non avessero fatto dello sconto l'unico motivo per frequentarle magari alcune di quelle librerie sarebbero ancora aperte. Magari no, ma magari sì. Per questo dico che lo sconto che un editore fa al libraio può essere un problema ma non è certo il più grande. Certo se la libreria funziona accade che si riescano a contrattare condizioni di pagamento (sconto e tempi di fatturazione) migliori. Ma spesso è un serpente che si morde la coda. In più è un continuo sentirsi sollecitati a fare ordini superiori a un certo importo per avere allungamenti di pagamento. Improvvisamente editori e promotori diventano generosi con noi librai? O non sanno più come svuotare i loro magazzini? Allora di cosa parliamo quando si parla di crisi delle librerie? Grazie dell'attenzione
Geraldine Meyer
Lettera aperta di una libraia leggermente stanca
Mai come in questo ultimo periodo si sente parlare di crisi dell'editoria, di librerie che chiudono. Ha fatto scalpore, dando inizio al dibattito, la chiusura a Milano della storica libreria di Porta Romana. Da lì si è cominciato a parlare di librerie indipendenti schiacciate dai costi insostenibili, di gestione e affitti. Curioso che in un paese di non lettori ci si sia accorti all'improvviso di cosa voglia dire fare i librai. Cercherò di chiarire, soprattutto a me stessa, di cosa si sta parlando. Perché, a volte, ho la sensazione di trovarmi in una situazione ipocrita e mistificante. Come quando un anziano pone fine ai suoi giorni distrutto dalla solitudine e i parenti, che mai sono andati a trovarlo, piangono calde lacrime e vomitano parole di rimpianto. Intanto vediamo di capire cosa significa librerie indipendenti. Tecnicamente sono quelle librerie che non appartengono ai grandi gruppi editoriali. Nella sostanza sono quelle librerie che, proprio per questo, di indipendente non hanno proprio nulla. A partire da una politica di acquisti spesso sconsiderata per un malinteso senso di commercio e quindi di do ut des. E qui cominciano le dolenti note. Il vittimismo spesso nasconde una straordinaria incapacità imprenditoriale da parte degli stessi librai. Non di tutti per carità. Però è innegabile che, nel corso degli anni, noi librai per primi, abbiamo spesso consentito che editori e promotori comandassero in casa nostra. E il problema è diventato strutturale, non solo di scontistica. Succede che quando ci si crede più deboli dell'interlocutore si sia portati a ritenersi ricattabili. Certo lo sconto ha contribuito non poco a creare una situazione di sofferenza finanziare per molte librerie, ma spesso è diventato un comodo, per quanto comprensibile alibi, per non parlare di altri problemi. Uno su tutti è stato quello di considerare le librerie come magazzini degli editori. Obiettivi economici studiati a tavolino, con criteri di marketing spesso slegati dalle effettive capacità di assorbimento delle librerie, hanno portato editori e società di promozione a caricare i negozi di quantitò di libri assolutamente ridicole. Finendo con il creare un mercato dopato da cifre non corrispondenti all'effettivo giro d'affari. Il tutto aggravato da tempi di accredito delle rese decisamente lunghissimi e una conseguente esposizione bancaria da parte delle librerie troppo impegnativa. In Italia manca una seria e costruttiva sinergia tra editori e librerie come accade, per esempio, in Germania. L'editore fa i suoi piani di vendita, si affida alla promozione che, a sua volta, fa un badget. Quando la filiera arriva alla libreria questa si trova già, fisiologicamente, a dover farsi carico del piano marketing di due soggetti a lei estranei. Parlo per esperienza diretta. Per qualche tempo ho fatto la venditrice per un gruppo promozionale. Ci dicevano quali erano le previsioni di vendita dell'editore. Ad ogni libreria veniva abbinato un certo numero di copie. Se il libraio ne ordinava meno del previsto, l'obiettivo veniva raggiunto con un bell'invio d'ufficio. Così il libraio che ne aveva ordinate solo due, per esempio, se ne vedeva arrivare cinque. Le metteva subito in resa ma l'accredito, ovviamente, arrivava successivamente alla fattura relativa a quella fornitura. Cornuti e mazziati dunque. Questo accadeva e non era certo un'eccezione nella politica di vendita. A parte tutte le altre considerazioni viene anche spontaneo chiedersi a cosa servano i promotori. So che sto dicendo parole grosse ma davvero spesso, non sempre ovvio, alcuni di loro finiscono con il diventare dei semplici collettori di ordini. Girano con i loro copertinari relativi a libri di cui spesso non sono neanche riusciti a conoscere il contenuto. Il tutto che ricadute ha? Una catena di operatori e figure intermedie che certo non snelliscono i costi. Ci sono delle lodevoli eccezioni. Ed è bene sottolinearlo. Alcuni di questi promotori sono davvero dei preziosi interlocutori per noi librai ma, molti diventano, loro malgrado, dei semplici esecutori di strategie decise a tavolino da signori che della libreria non sanno molto. Ho letto in questi giorni sul blog di Sul Romanzo un post in cui si parlava di legittima esigenza del consumatore al risparmio. Ma i prezzi di copertina chi li fa? I librai o gli editori. E gli aggiornamenti di prezzo che settimanalmente arrivano per mail? Libri il cui prezzo aumenta di 1, 1.50, o anche 2 euro in una volta? E non si tratta di nuove edizioni, con nuove traduzioni o almeno nuove introduzioni. No no. Sono gli stessi libri. Molti di questi sono tascabili. I così detti "economici". Che arrivano a costare anche 13 o 14 euro. Economici? Tanto la faccia la mette il libraio che poi si sente chiedere (non sempre gentilmente) dal cliente alla cassa "mi fa lo sconto?" Se c'è una legittima esigenza di risparmio per i consumatori, c'è anche una legittima esigenza dei librai di essere considerati dei professionisti. E non sempre accade. Se alcuni clienti delle librerie che hanno chiuso non avessero fatto dello sconto l'unico motivo per frequentarle magari alcune di quelle librerie sarebbero ancora aperte. Magari no, ma magari sì. Per questo dico che lo sconto che un editore fa al libraio può essere un problema ma non è certo il più grande. Certo se la libreria funziona accade che si riescano a contrattare condizioni di pagamento (sconto e tempi di fatturazione) migliori. Ma spesso è un serpente che si morde la coda. In più è un continuo sentirsi sollecitati a fare ordini superiori a un certo importo per avere allungamenti di pagamento. Improvvisamente editori e promotori diventano generosi con noi librai? O non sanno più come svuotare i loro magazzini? Allora di cosa parliamo quando si parla di crisi delle librerie? Grazie dell'attenzione
Geraldine Meyer
Fotografia e narrazione
Ringrazio Unica oltre, uno dei contatti più interessanti su Facebook per avermi consentito di pubblicare queste foto. Sono solo alcune delle immagini che potete trovare sul suo profilo. Perché le trovo interessanti? Perché credo siano un esempio di narrazione per immagini. La fotografia allena al punto di vista sempre diverso. Le storie, se si vuole, possono fare altrettanto: raccontare da diversi punti di vista. Quante storie si potrebbero scrivere sull'onda dello sguardo da cui arrivano queste immagini. Sollecitazioni, riflessioni, punti di vista appunto.
La letteratura del NO
Straordinario testo su quegli scrittori che, ad un certo punto della loro vita, hanno deciso di eclissarsi, di sottrarsi al mondo. Forse troppo ricchi di una severa coscienza letteraria hanno addirittura smesso di scrivere. Una straordinaria riflessione sul silenzio, su una ricerca impossibile della parola perfetta e definitiva. Ma, come il primo assioma della comunicazione insegna, e cioé che è impossibile non comunicare, forse anche il bisogno di sparire è un modo di esserci. Apparentemente più discreto. Forse più presente del presente. Da dove arrivano le parole, le storie, le immagini che divengono libri? Forse chiunque si cimenti con la tortura della scrittura si trova a trascrivere un dettato interiore. Un testo davvero indispensabile per riflettere sull'ossessione di apparire e pubblicare. Ad ogni costo
venerdì 20 agosto 2010
Continua il viaggio nella neurolinguistica e nelle neuroscienze. Uno dei testi più importanti, da leggere assolutamente. Gardner ci guida alla scoperta della sua teoria delle intelligenze multiple per parlare di apprendimento, creatività e molto altro. Per me materia di lavoro e studio per i corsi che sto preparando. Il concetto di formazione permanente non è una vuota formuletta ma un percorso continuo di aggiornamento e lettura. http://www.apprendimentocooperativo.it/?ida=10642 Vi segnalo questo sito con relativo articolo dedicato a questo libro.
Si ricomincia
Dopo alcuni mesi di assenza dalla rete, o almeno da questo blog, rieccomi. Sono accadute molte cose. Alcuni progetti si sono arenati e altri continuano a prendere una forma sempre più strutturata. In questi mesi ho continuato a studiare e a scrivere, a seguire lezioni in aula e a stendere programmi lavorativi. Si parte con un fine settimana di lavoro, il 4 e 5 settembre. In Toscana, con gli amici della Palestra della scrittura ci riuniremo per una riunione editoriale. Sul tavolo la lettura e l'editing dei primi cinque testi che ci vedranno esordire come editori. Nel frattempo ha preso inizio una serie di lezioni on line su romanzo e pnl. Per saperne di più potete seguire l'iniziativa sul blog Sul Romanzo. Con gli amici del Giardino dei viandanti sto mettendo a punto una serie di lezioni su scrittura efficace e web writing. Insomma gli impegni ci sono. E la volontà di portarli a termine anche. Un autunno scoppiettante ammicca da questa strana estate, non molto serena per la verità. Ma andiamo avanti. La libreria e le altre attività editoriali e di formazione devono proseguire in modo costruttivo. Ben ritrovati
Dopo alcuni mesi di assenza dalla rete, o almeno da questo blog, rieccomi. Sono accadute molte cose. Alcuni progetti si sono arenati e altri continuano a prendere una forma sempre più strutturata. In questi mesi ho continuato a studiare e a scrivere, a seguire lezioni in aula e a stendere programmi lavorativi. Si parte con un fine settimana di lavoro, il 4 e 5 settembre. In Toscana, con gli amici della Palestra della scrittura ci riuniremo per una riunione editoriale. Sul tavolo la lettura e l'editing dei primi cinque testi che ci vedranno esordire come editori. Nel frattempo ha preso inizio una serie di lezioni on line su romanzo e pnl. Per saperne di più potete seguire l'iniziativa sul blog Sul Romanzo. Con gli amici del Giardino dei viandanti sto mettendo a punto una serie di lezioni su scrittura efficace e web writing. Insomma gli impegni ci sono. E la volontà di portarli a termine anche. Un autunno scoppiettante ammicca da questa strana estate, non molto serena per la verità. Ma andiamo avanti. La libreria e le altre attività editoriali e di formazione devono proseguire in modo costruttivo. Ben ritrovati
lunedì 10 maggio 2010
Viaggio nella comunicazione
La collaborazione con gli amici della Palestra della scrittura è stata, e continua ad essere, un percorso all'interno della comunicazione e della scrittura efficace. Una rete di persone e libri il cui progetto è una formazione alla comunicazione funzionale. In tutti gli ambiti, da quello personale a quello di lavoro, le relazioni possono prendere una strada o un'altra a seconda di come si comunica. Lo studio dei testi di Watzlawick è uno dei fondamenti teorici di questo gruppo di lavoro. Watzlawick, filosofo, psicologo e sociologo austriaco è stato uno dei maggiori studiosi di comunicazione e linguaggio. Punto di partenza delle sue riflessioni e del nostro metodo di lavoro è che la realtà oggettiva non esiste. Ciò dentro cui ci si muove e con cui spesso si lotta è la rappresentazione che noi ci facciamo di questa realtà. E, cosa ancora più importante, il linguaggio che utilizziamo per raccontare e raccontarci questa realtà. Per questo il linguaggio, le parole assumono un importanza fondamentale non solo per comunicare ma anche per costruire le mappe mentali con cui ci rappresentiamo il mondo. E per lo stesso motivo le parole possono diventare strumenti straordinari di cambiamento. È importante dire che a noi interessa tutto ciò dal punto di vista linguistico e comunicativo. Non siamo psicologi o terapeuti. Ci interessa la lingua come strumento di trasmissione di messaggi. Scritta o orale se usata in modo efficace apre innumerevoli strade per evitare relazioni disfunzionali. Vorrei condividere con voi le tappe di una formazione e di uno studio matto e disperatissimo attraverso materie e autori affrontati in aula e nel lavoro quotidiano. Nei prossimi giorni dovrebbe venire pubblicato un mio articolo su questo argomento sul blog Sul Romanzo. Il mio progetto sarebbe quello di scrivere anche sul mio blog una serie di articoli, riflessioni sulla scrittura web, sulla scrittura efficace e sulla comunicazione. Perché con allenamento ed esercizio si può comunicare meglio.
martedì 20 aprile 2010
la vendita è donna
Mentre raccolgo materiale per la lezione che terrò a Cremona sulla scrittura femminile, ripropongo un mio articolo sulla vendita.
LA VENDITA E’ DONNA. IL LINGUAGGIO DELL’ACCOGLIENZA NEGLI ESERCIZI COMMERCIALI. PICCOLE E BREVI CONSIDERAZIONI
Qualche lettura e sei anni di analisi mi hanno insegnato che non bisognerebbe mai iniziare un discorso con una negazione. Ma il linguaggio è una creatura viva e in quanto tale mutevole, in evoluzione, inafferrabile. Le sfumature richiedono intelligenza nel senso etimologico del termine. Ma proprio perché sfumature esigono lealtà. Allora inizio dicendo che questo scritto non è una relazione e non è neanche un insieme di teorie. Non ne ha la scientificità e il rigore. E’ semmai una serie di considerazioni basate sull’esperienza. Ventidue anni di negozio mi hanno portata a maturare alcune idee. Allora diciamo un racconto come saluto ad un’esperienza che comunque mi ha dato tanto. Ma proprio perché non ha, e forse non vuole neanche avere una pretesa di scientificità, credo che si dipanerà all’insegna di tanti punti di domanda. Devo confessare che nella punteggiatura il segno interrogativo è quello che prediligo in assoluto. Mi è simpatico, più sbarazzino nella sua curva, meno tronfio della verticalità del punto esclamativo e meno falsamente timido (nella sua piccolezza) del punto e basta. Beh con queste premessa il rischio è quello di partire pensando ad una meta e arrivare ad un’altra. Non è fantastico pensandoci bene? Allora cominciamo con due semplici osservazioni. Provate a pensare a quante volte, entrando in un negozio o anche solo passandoci davanti avete avuto a che fare con donne. E quanti uomini? Di meno o di più? E in quale caso vi siete sentiti più a vostro agio? In linea di massima intendo, così come sensazione. Ripeto le mie non sono teorie quindi queste, anche se così può sembrare, non sono domande retoriche. Sto ragionando insieme a chi mi legge. Dal momento che non ho tesi da difendere non mi riesce difficile dire che mi è capitato di avere a che fare con venditori estremamente empatici (se così si può dire) e venditrici che mi facevano capire che il loro più grande desiderio era che me ne andassi velocemente. Però non è capitato spessissimo. Insomma posso dire che a livello epidermico ci si sente più accolti da una donna? E posso dire che a livello di aspettativa una donna ci fa pensare che saremo accolti meglio? Forse ha qualcosa a che fare con la figura materna, destinataria fin dalla nostra più tenera età di ogni nostra richiesta e (quando va bene) dispensatrice di calore e sorrisi. Può essere. Ma mentre scrivo mi accorgo che quando dico che la vendita è donna penso a qualcosa che non ha a che fare solo con una differenza di genere. Mi spiego. Avete mai pensato a come, spesso, volendo fare un complimento alla delicatezza, sensibilità, attenzione di un uomo vi siete trovati a dire “ha un che di femmineo. Ha un animo quasi femminile”. E femminile non è effeminato. Mi viene da pensare che dire la vendita è donna abbia a che fare anche con una sorta di attitudine. E’ qualcosa che riguarda la modulazione delle parole. Non si tratta solo di sorridere ma di sedurre, nel senso di portare a sè. E questo richiede che chi vende abbia, in qualche modo, acquistato ciò che sta vendendo. Ed è innegabile che le donne (in questo caso sì come genere) abbiano una maggiore facilità nel far loro affettivamente e linguisticamente ciò che vendono. Credo di avere sempre avuto una certa difficoltà a ragionare in astratto. Mi piace legare le mie idee a qualcosa di concreto, qualcosa che accompagni una considerazione a un caso specifico. Vorrei fare qui l’esempio di due donne venditrici, in campi completamente diversi; una è una mia collaboratrice in libreria, Rosy. L’altra è una grande cuoca, proprietaria di un ristorante nel viterbese, Miriam. Strada facendo vi spiegherò perché considero grande venditrice una ristoratrice. Partiamo da Rosy. A parte una simpatia innata e un carattere trascinante essa attua, ogni volta, accorgimenti tecnici direi sofisticati. Quando un cliente chiede un libro che abbiamo reso, Rosy non dice mai questo. Sostiene sempre che il libro è stato venduto. Un po’ perché così da l’idea di una libreria che funziona e sa di cosa sta parlando il cliente. Un pò lo fa sentire accolto perché dire che il libro che sta cercando è stato reso può essere recepito come un giudizio di valore su ciò che sta cercando. Capite cosa mi ha insegnato questa donna? E in tutta la mia lunga carriera solo lei mi ha dato una dritta del genere. E vi assicuro che ho lavorato con dei signor professionisti. Beh, non so voi, ma io questa cura verso una richiesta di un cliente la trovo molto femminile. Non dare mai la sensazione di sottovalutare una richiesta (anche se magari la troviamo davvero stupida) lo trovo molto delicato. E siccome questo è veramente un work in progress mi accorgo che più che dire che la vendita è donna è meglio dire che la vendita diviene donna. E lo diviene attraverso l’uso di parole piuttosto che altre, modulate quasi come andassero a comporre un racconto. Succede spesso che quando si vuole riportare un esempio di saggezza e buon senso ci si rifaccia a un modo di dire, a un proverbio e quasi sempre l’autrice evocata di questa sapienza è una donna: “Come diceva la mia nonna....” “Mia madre mi diceva sempre.....” Le donne come depositarie di parole e storie, racconti e favole. Non si tratta di fare una classifica, semplicemente di accorgersi di come gli uomini (intesi come maschi) vengano considerati custodi di altre cose. Un altro esempio: un cliente difficile, aggressivo. La prima tentazione sarebbe (e molto spesso è) quella di irrigidirsi a nostra volta. Rosy invece sembra diventare di gomma e con parole leggere, morbide di sicuro ironiche, riesce a smontare, a destrutturare il discorso del cliente. E con il discorso anche la sua aggressività. Perché il linguaggio parla di chi lo usa e si abbarbica al nostro stato d’animo divenendo forma verbalizzata di ciò che sentiamo in quel momento. E così una situazione che poteva diventare conflittuale si trasforma in uno scambio linguistico e umano meno mortificante. Nessuno vince o perde. Però, di solito, Rosy, porta a casa una vendita. E ancora una volta penso a come le mamme spesso riescono a far mangiare i più riottosi dei figli. Di fronte a bocche cucite come resistenti reti da pesca, anziché insistere sullo stesso piano, le mamme trasformano quel momento in un gioco. E allora vai di aerei carichi di pappa che atterrano in aereoporti chiusi, navi a forma di cucchiaino che attraccano, trenini che arrivano in stazione con verdure sorridenti. Se le difficoltà si trasformano in racconto ci sono più probabilità che smussino il loro carico di resistenza. Veniamo ora a Miriam. Nel suo ristorante non solo si mangia benissimo, si respira un’aria che non è solo piena di profumi e aromi, ma di accoglienza. Quando lei gira per i tavoli a prendere le ordinazioni compie un gesto che io trovo molto seduttivo e femminile: si siede. Con questo semplice gesto trasmette al cliente la sensazione di regalargli una cosa che non ha prezzo: il tempo. Non solo spiega cosa sono i piatti che propone. Crea un dispositivo, prima di tutto linguistico, in cui le persone si preparano a nutrirsi anche di calore. Anche questa è vendita, di cibo e del locale tutto. Sia ben chiaro che non voglio assolutamente sostenere che gli uomini non possano essere bravi venditori; non a caso ho specificato che volevo parlare degli esercizi commerciali, cioè luoghi in cui è il cliente che si muove per raggiungerli e non il venditore che viene a sua volta accolto. Mi verrebbe da usare un’immagine antropologico-sessuale legata proprio alle due specificità di vendita: l’uomo, che anche nel sesso “penetra” nella vendita lo si trova più facilmente nel ruole del venditore che entra nel territorio altrui; la donna “accogliente” aderisce meglio al ruolo di padrona di casa che apre le porte del suo territorio per far stare bene i suoi ospiti
LA VENDITA E’ DONNA. IL LINGUAGGIO DELL’ACCOGLIENZA NEGLI ESERCIZI COMMERCIALI. PICCOLE E BREVI CONSIDERAZIONI
Qualche lettura e sei anni di analisi mi hanno insegnato che non bisognerebbe mai iniziare un discorso con una negazione. Ma il linguaggio è una creatura viva e in quanto tale mutevole, in evoluzione, inafferrabile. Le sfumature richiedono intelligenza nel senso etimologico del termine. Ma proprio perché sfumature esigono lealtà. Allora inizio dicendo che questo scritto non è una relazione e non è neanche un insieme di teorie. Non ne ha la scientificità e il rigore. E’ semmai una serie di considerazioni basate sull’esperienza. Ventidue anni di negozio mi hanno portata a maturare alcune idee. Allora diciamo un racconto come saluto ad un’esperienza che comunque mi ha dato tanto. Ma proprio perché non ha, e forse non vuole neanche avere una pretesa di scientificità, credo che si dipanerà all’insegna di tanti punti di domanda. Devo confessare che nella punteggiatura il segno interrogativo è quello che prediligo in assoluto. Mi è simpatico, più sbarazzino nella sua curva, meno tronfio della verticalità del punto esclamativo e meno falsamente timido (nella sua piccolezza) del punto e basta. Beh con queste premessa il rischio è quello di partire pensando ad una meta e arrivare ad un’altra. Non è fantastico pensandoci bene? Allora cominciamo con due semplici osservazioni. Provate a pensare a quante volte, entrando in un negozio o anche solo passandoci davanti avete avuto a che fare con donne. E quanti uomini? Di meno o di più? E in quale caso vi siete sentiti più a vostro agio? In linea di massima intendo, così come sensazione. Ripeto le mie non sono teorie quindi queste, anche se così può sembrare, non sono domande retoriche. Sto ragionando insieme a chi mi legge. Dal momento che non ho tesi da difendere non mi riesce difficile dire che mi è capitato di avere a che fare con venditori estremamente empatici (se così si può dire) e venditrici che mi facevano capire che il loro più grande desiderio era che me ne andassi velocemente. Però non è capitato spessissimo. Insomma posso dire che a livello epidermico ci si sente più accolti da una donna? E posso dire che a livello di aspettativa una donna ci fa pensare che saremo accolti meglio? Forse ha qualcosa a che fare con la figura materna, destinataria fin dalla nostra più tenera età di ogni nostra richiesta e (quando va bene) dispensatrice di calore e sorrisi. Può essere. Ma mentre scrivo mi accorgo che quando dico che la vendita è donna penso a qualcosa che non ha a che fare solo con una differenza di genere. Mi spiego. Avete mai pensato a come, spesso, volendo fare un complimento alla delicatezza, sensibilità, attenzione di un uomo vi siete trovati a dire “ha un che di femmineo. Ha un animo quasi femminile”. E femminile non è effeminato. Mi viene da pensare che dire la vendita è donna abbia a che fare anche con una sorta di attitudine. E’ qualcosa che riguarda la modulazione delle parole. Non si tratta solo di sorridere ma di sedurre, nel senso di portare a sè. E questo richiede che chi vende abbia, in qualche modo, acquistato ciò che sta vendendo. Ed è innegabile che le donne (in questo caso sì come genere) abbiano una maggiore facilità nel far loro affettivamente e linguisticamente ciò che vendono. Credo di avere sempre avuto una certa difficoltà a ragionare in astratto. Mi piace legare le mie idee a qualcosa di concreto, qualcosa che accompagni una considerazione a un caso specifico. Vorrei fare qui l’esempio di due donne venditrici, in campi completamente diversi; una è una mia collaboratrice in libreria, Rosy. L’altra è una grande cuoca, proprietaria di un ristorante nel viterbese, Miriam. Strada facendo vi spiegherò perché considero grande venditrice una ristoratrice. Partiamo da Rosy. A parte una simpatia innata e un carattere trascinante essa attua, ogni volta, accorgimenti tecnici direi sofisticati. Quando un cliente chiede un libro che abbiamo reso, Rosy non dice mai questo. Sostiene sempre che il libro è stato venduto. Un po’ perché così da l’idea di una libreria che funziona e sa di cosa sta parlando il cliente. Un pò lo fa sentire accolto perché dire che il libro che sta cercando è stato reso può essere recepito come un giudizio di valore su ciò che sta cercando. Capite cosa mi ha insegnato questa donna? E in tutta la mia lunga carriera solo lei mi ha dato una dritta del genere. E vi assicuro che ho lavorato con dei signor professionisti. Beh, non so voi, ma io questa cura verso una richiesta di un cliente la trovo molto femminile. Non dare mai la sensazione di sottovalutare una richiesta (anche se magari la troviamo davvero stupida) lo trovo molto delicato. E siccome questo è veramente un work in progress mi accorgo che più che dire che la vendita è donna è meglio dire che la vendita diviene donna. E lo diviene attraverso l’uso di parole piuttosto che altre, modulate quasi come andassero a comporre un racconto. Succede spesso che quando si vuole riportare un esempio di saggezza e buon senso ci si rifaccia a un modo di dire, a un proverbio e quasi sempre l’autrice evocata di questa sapienza è una donna: “Come diceva la mia nonna....” “Mia madre mi diceva sempre.....” Le donne come depositarie di parole e storie, racconti e favole. Non si tratta di fare una classifica, semplicemente di accorgersi di come gli uomini (intesi come maschi) vengano considerati custodi di altre cose. Un altro esempio: un cliente difficile, aggressivo. La prima tentazione sarebbe (e molto spesso è) quella di irrigidirsi a nostra volta. Rosy invece sembra diventare di gomma e con parole leggere, morbide di sicuro ironiche, riesce a smontare, a destrutturare il discorso del cliente. E con il discorso anche la sua aggressività. Perché il linguaggio parla di chi lo usa e si abbarbica al nostro stato d’animo divenendo forma verbalizzata di ciò che sentiamo in quel momento. E così una situazione che poteva diventare conflittuale si trasforma in uno scambio linguistico e umano meno mortificante. Nessuno vince o perde. Però, di solito, Rosy, porta a casa una vendita. E ancora una volta penso a come le mamme spesso riescono a far mangiare i più riottosi dei figli. Di fronte a bocche cucite come resistenti reti da pesca, anziché insistere sullo stesso piano, le mamme trasformano quel momento in un gioco. E allora vai di aerei carichi di pappa che atterrano in aereoporti chiusi, navi a forma di cucchiaino che attraccano, trenini che arrivano in stazione con verdure sorridenti. Se le difficoltà si trasformano in racconto ci sono più probabilità che smussino il loro carico di resistenza. Veniamo ora a Miriam. Nel suo ristorante non solo si mangia benissimo, si respira un’aria che non è solo piena di profumi e aromi, ma di accoglienza. Quando lei gira per i tavoli a prendere le ordinazioni compie un gesto che io trovo molto seduttivo e femminile: si siede. Con questo semplice gesto trasmette al cliente la sensazione di regalargli una cosa che non ha prezzo: il tempo. Non solo spiega cosa sono i piatti che propone. Crea un dispositivo, prima di tutto linguistico, in cui le persone si preparano a nutrirsi anche di calore. Anche questa è vendita, di cibo e del locale tutto. Sia ben chiaro che non voglio assolutamente sostenere che gli uomini non possano essere bravi venditori; non a caso ho specificato che volevo parlare degli esercizi commerciali, cioè luoghi in cui è il cliente che si muove per raggiungerli e non il venditore che viene a sua volta accolto. Mi verrebbe da usare un’immagine antropologico-sessuale legata proprio alle due specificità di vendita: l’uomo, che anche nel sesso “penetra” nella vendita lo si trova più facilmente nel ruole del venditore che entra nel territorio altrui; la donna “accogliente” aderisce meglio al ruolo di padrona di casa che apre le porte del suo territorio per far stare bene i suoi ospiti
lunedì 19 aprile 2010
La seconda scomparsa di Majorana
Questo è un libro prezioso. Non lo troverete mai in pila sui tavoli di una libreria. Ma nel mio negozio virtuale sì. Straordinaria testimonianza sull'identità, il corpo e il desiderio di sparire. Sullo sfondo di un'Argentina ancora dilaniata dai ricordi del regime militare e dei desaparecidos. La storia di Ettore Majorana diviene un pretesto per riflettere sul potere delle storie e della letteratura sotto qualsiasi regime. Vorrei davvero vedervi uscire dalla mia libreria con questo testo. Lo merita
I giorni nudi
Nella mia libreria trova posto questo libro. Cosa accade a un cinquantenne all'apice della sua vita lavorativa? Sceneggiatore di successo, uomo affermato. Dopo un incidente incontra una giovanissima donna che lo ributta nel gorgo di incertezze e paure che l'amore porta sempre con sé. Incapace di vivere il presente si immagina già la fine di questa storia. Proprio come una delle sue sceneggiature. Un libro che ci racconta di come la fine delle storie è già nelle parole che usiamo per raccontarcele. Avrei preferito una scrittura in prima persona. Un narratore onniscente, fuori campo mi ha spesso dato l'impressione di un'onnipotenza senza però responsabilità. Comunque il libro è ben scritto e restituisce molto bene quel sottile eppure pesante senso di vuoto che avvolge le persone ad una certà età.
sabato 17 aprile 2010
Giornata particolare
Ieri è stata una giornata particolare per me in libreria. Sandrone Dazieri è venuto qualche ora da noi a fare il commesso e Morgan Palmas, fondatore del blog Sul Romanzo è passato da Milano per conoscere alcuni collaboratori e lettori del blog. Per qualche ora quindi in libreria si è creato un piacevole movimento. Per un attimo mi è sembrato che la libreria fosse tornata ad essere un'autostrada di parole e idee. Un simpatico e un po' confusionario teatro in cui gli attori improvvisavano. Devo dire che, al di là della stanchezza che a volte mi prende, questi momenti in cui faccio la padrona di casa mi piacciono molto. C'è l'aspetto dell'occoglienza che mi trova comunque disponibile.
L'iniziativa dello scrittore commesso l'abbiamo mutuata da una libreria di Cagliari che tempo fa la ribattezzò "Scrittori socialmente utili". Un modo diverso dalla solita presentazione formale. Da noi gli scrittori che si sono prestati a questo gioco hanno messo a disposizione qualche ora del loro sabato per immergersi in modo diverso nella libreria. E per parlare in altro modo del loro lavoro.
sabato prossimo si ripeterà di nuovo l'esperienza con Amedeo Romeo, autore del libro "Non piangere coglione".
L'iniziativa dello scrittore commesso l'abbiamo mutuata da una libreria di Cagliari che tempo fa la ribattezzò "Scrittori socialmente utili". Un modo diverso dalla solita presentazione formale. Da noi gli scrittori che si sono prestati a questo gioco hanno messo a disposizione qualche ora del loro sabato per immergersi in modo diverso nella libreria. E per parlare in altro modo del loro lavoro.
sabato prossimo si ripeterà di nuovo l'esperienza con Amedeo Romeo, autore del libro "Non piangere coglione".
giovedì 15 aprile 2010
Lavori in corso
Sul mio tavolo c'è una montagna di libri. Molti già letti e recensiti non si decidono però a trovare posto nella libreria di casa. Tra questi, tre che sto leggendo in contemporanea: "Union Atlantic" di Adam Haslett, "La seconda scomparsa di Majorana" di Jordi Bonells edito da Keller, diventato famoso per avere pubblicato il premio nobel Muller, e "I giorni nudi" di Claudio Piersanti. Libri completamente diversi l'uno dall'altro e che costringono a registri di lettura molto differenti. Devo dire che questo percorrere in contemporanea pagine così distanti l'una dall'altra è una modalità di lettura che ho rimesso in pratica recentemente. Temevo una sorta di dispersione di trame e significati, invece sto scoprendo un modo per rendere la lettura ancora più complessa e variegata. Poi vi parlerò meglio di questi tre testi.
Sul mio tavolo c'è una montagna di libri. Molti già letti e recensiti non si decidono però a trovare posto nella libreria di casa. Tra questi, tre che sto leggendo in contemporanea: "Union Atlantic" di Adam Haslett, "La seconda scomparsa di Majorana" di Jordi Bonells edito da Keller, diventato famoso per avere pubblicato il premio nobel Muller, e "I giorni nudi" di Claudio Piersanti. Libri completamente diversi l'uno dall'altro e che costringono a registri di lettura molto differenti. Devo dire che questo percorrere in contemporanea pagine così distanti l'una dall'altra è una modalità di lettura che ho rimesso in pratica recentemente. Temevo una sorta di dispersione di trame e significati, invece sto scoprendo un modo per rendere la lettura ancora più complessa e variegata. Poi vi parlerò meglio di questi tre testi.
Il mestiere del libraio
Per chi non avesse letto il mio articolo pubblicato dalla webzine del blog Sul Romanzo, lo ripropongo qui. Però leggete questa rivista perché è un prodotto davvero interessante. Tra pochi giorni, in rete, il secondo numero
Ho cominciato a fare la libraia ventidue anni fa. Tanti, pochi. Non saprei dirlo con precisione. In questo sono molto bergsoniana e ho una concezione del tempo variabile a seconda dei momenti, delle prospettive, degli stati d'animo e dei frangenti professionali che mi trovo a vivere. Non vorrei tediarvi con la storia del mio percorso, solo testimoniare una vita fatta di libri, di librerie. Einaudi, Garzanti, Feltrinelli sono solo alcune delle tappe di una geografia libraria che mi ha portata, nel 2006, ad affrontare l'avventura imprenditoriale e a mettermi in società nella gestione di una libreria mia: Il Trittico, a Milano. Ripercorrere questo itineraio amplifica il tempo trascorso tra gli scaffali se lo guardo dalla prospettiva degli incontri fatti, delle esperienze vissute e dell'evoluzione lavorativa che questo mestiere ha fatto registrare. Ogni libreria ha rappresentato un mattoncino in questa costruzione professionale ma, non potendo parlare di ciascuna di loro, vorrei concentrare le mie riflessioni su una in particolare: la Feltrinelli di Via Manzoni a Milano. Questa piccola grande libreria ha rappresentato per me qualcosa di speciale e unico nella mia storia professionale. Non si tratta di disconoscere l'importanza delle altre botteghe in cui ho avuto la fortuna di lavorare ma di ammettere che questa libreria mi ha lasciato addosso le cose più importanti che ho imparato. Sono arrivata in Feltrinelli nel marzo del 1999 e questa data, scritta così, nero su bianco, si staglia ora davanti a me come qualcosa di lontano. Eppure presente. Si lavorava in modo artigianale e molto rigoroso affrontando una gavetta che oggi, troppo spesso, non si fa più. Quello del libraio è un mestiere che si impara sul campo. Edison diceva che un lavoro fatto bene, di qualsiasi cosa si tratti, è fatto dall'1% di ispirazione e dal 99% di traspirazione. Nel senso fisico del termine. E' fatto di fatica. Questo tanto per sgomberare il campo dalla mistificazione che troppo spesso circonda questo mestiere e porta ad ascoltare opinioni sul lavoro del libraio che fanno rabbrividire. Allora si cominciava con il lavorare per qualche mese in magazzino. Tra pesanti colli da ricevere, bolle da controllare, libri da sistemare sul bancone, si prendeva una sorta di confidenza fisica con l'oggetto libro. E si imparava a valutare l'importanza del controllo del flusso dei libri dal magazzino alla libreria. Non tutti i momenti erano buoni per far arrivare ai librai la merce ricevuta e lavorata. In magazzino si controllava che il prezzo segnato sulla bolla corrispondesse a quello di copertina. Un lavoro che ora sembra superfluo. Infatti non si contano i libri che arrivano alla cassa con discrepanze in tal senso. E uno dei primi concetti che si impregnavano nella testa era quello dell'umiltà. Quando si aprivano i colli i libri venivano divisi per editore in modo tale che si spuntassero più o meno nello stesso ordine con cui erano registrati nella bolla. Anche questo sembra un lavoro superfluo. Invece consentiva di sapere subito se un libro era arrivato, senza andarlo a cercare a caso sotto una marea di altri suoi simili. E questa era un'altra lezione: non si lavora da soli ma tenendo conto delle dinamiche di gruppo. Il magazzino veniva considerato nevralgico per il funzionamento della libreria. C'è ancora qualcuno che insegna questo? Bene, dopo circa tre mesi di magazzino si passava in libreria. E qui si continuava con l'impostazione artigianale di cui parlavo prima. La giornata cominciava con lo straccio della polvere. Si spolveravano gli scaffali e i libri. Lavoro umile? Certo. Ma essenziale. Nel lavoro non bisogna focalizzare l'attenzione solo sull'immediato, sul gesto contingente che si sta compiendo. C'è sempre altro. In questo caso fare la polvere non era solo pulire. Significava prendere in mano i libri per sistemare lo scaffale, sfogliarli per capire se fossero posizionati nel giusto settore, decidere di metterli di faccia perché avessero una visibilità diversa. E si imparava a rendere vivo e dinamico uno scaffale. Ma sempre c'era un rapporto fisico con i libri. Bisognava toccarli, guardarli, prenderli in mano. Lo stesso avveniva con il sistema di schedatura e riordino. All'interno di ogni libro (o di una copia se si trattava di libri in numero superiore a uno per lo stesso titolo) c'era una scheda con la carta di identità del libro: autore, titolo, editore, giorno di uscita in libreria, numero di copie arrivate. Quando il libro arrivava alla cassa, la cassiera levava questa scheda e la riponeva in un cassetto. Ad un certo punto della giornata i librai raccoglievano le schede e iniziavano il lavoro di rifornimento. Le schede, che raccontavano la vita del libro costringevano ancora una volta a confrontarsi fisicamente con esso. Il libraio era costretto a girare per il negozio per guardare con gli occhi l'andamento delle vendite e decidere cosa fare di quella scheda: riordinare il libro o reinfilare la scheda in una delle copie di quel titolo. Certo ci si metteva forse qualche minuto in più, ma non si assisteva a storture come quelle odierne di un libraio che riordina i libri guardando solo lo schermo di un computer. Raccolte le schede si dividevano per distributore e si scrivevano i fax a mano. Capite cosa voleva dire, per la memoria bibliografica, scrivere ogni giorno titolo, autore, editore? A questo si aggiunga che, all'epoca, il computer veniva usato solo come banca dati. Non riportava le giacenze dei titoli e il loro settore. Questo implicava che una volta individuato il titolo era il libraio che doveva ricordarsi se quel libro era presente in libreria e dove. Non sono mai stata, per natura, incline a uno sguardo malinconico sul passato. ma forse, senza accorgermene lo sono diventata per ragioni anagrafiche. Lungi da me l'idea di criticare ogni aspetto di modernizzazione del mestiere del libraio. Le cose cambiano, si evolvono. I tempi si accelerano e ogni cosa sembra doversi adeguare a questo.Pensare che il mestiere del libraio potesse esimersi da questo sarebbe stato forse un po' patetico e anacronistico. Ma come tutte le persone che diventano adulte comincio a capire che i proverbi hanno più di un fondo di verità. E dire che "non bisogna buttare anche il bambino insieme all'acqua sporca" è per me qualcosa di più di una citazione popolare. Nel mio tentativo di rivalutare, forse inutilmente, metodi di lavoro non proprio aggiornati, e il farlo attraverso i proverbi c'è qualcosa di più. C'è il desiderio di non perdere, ammesso che ci sia mai stata, una cultura del mestiere. Un recupero anche solo come grido di aiuto di un elemento manuale imprescindibile per fare questo lavoro. Certo ci vogliono letture, tante, curiosità. Ma queste sono un valore aggiunto. Quando sento ragazzi che vogliono lavorare in libreria e portano come motivazione principale il fatto che amano leggere mi viene da urlare di rabbia. Perché, con il tempo e l'esperienza ho imparato a capire cosa c'è dietro questa affermazione. Detto questo una riflessione sui supporti tecnologici su cui oggi possiamo contare. Programmi informatici studiati apposta per la gestione della libreria sono una mano santa. Non sono così vetusta da osare azzardarlo. Sempre tenendo ben presente che questi mezzi sono solo un affiancamento alla professionalità. Non la sostituiscono. La aiutano e l'amplificano. Solo se questa professionalità c'è. Io dico sempre che un libraio imbecille davanti a un computer non diventa un bravo libraio. Resta un imbecille. Non è comunque un caso che il softwer migliore per la gestione sia Macbook, studiato e realizzato da librai. Credo che come prima puntata di questo viaggio nel lavoro di libraia possa bastare. Giusto per far capire di cosa si sta parlando
Geraldine Meyer
Ho cominciato a fare la libraia ventidue anni fa. Tanti, pochi. Non saprei dirlo con precisione. In questo sono molto bergsoniana e ho una concezione del tempo variabile a seconda dei momenti, delle prospettive, degli stati d'animo e dei frangenti professionali che mi trovo a vivere. Non vorrei tediarvi con la storia del mio percorso, solo testimoniare una vita fatta di libri, di librerie. Einaudi, Garzanti, Feltrinelli sono solo alcune delle tappe di una geografia libraria che mi ha portata, nel 2006, ad affrontare l'avventura imprenditoriale e a mettermi in società nella gestione di una libreria mia: Il Trittico, a Milano. Ripercorrere questo itineraio amplifica il tempo trascorso tra gli scaffali se lo guardo dalla prospettiva degli incontri fatti, delle esperienze vissute e dell'evoluzione lavorativa che questo mestiere ha fatto registrare. Ogni libreria ha rappresentato un mattoncino in questa costruzione professionale ma, non potendo parlare di ciascuna di loro, vorrei concentrare le mie riflessioni su una in particolare: la Feltrinelli di Via Manzoni a Milano. Questa piccola grande libreria ha rappresentato per me qualcosa di speciale e unico nella mia storia professionale. Non si tratta di disconoscere l'importanza delle altre botteghe in cui ho avuto la fortuna di lavorare ma di ammettere che questa libreria mi ha lasciato addosso le cose più importanti che ho imparato. Sono arrivata in Feltrinelli nel marzo del 1999 e questa data, scritta così, nero su bianco, si staglia ora davanti a me come qualcosa di lontano. Eppure presente. Si lavorava in modo artigianale e molto rigoroso affrontando una gavetta che oggi, troppo spesso, non si fa più. Quello del libraio è un mestiere che si impara sul campo. Edison diceva che un lavoro fatto bene, di qualsiasi cosa si tratti, è fatto dall'1% di ispirazione e dal 99% di traspirazione. Nel senso fisico del termine. E' fatto di fatica. Questo tanto per sgomberare il campo dalla mistificazione che troppo spesso circonda questo mestiere e porta ad ascoltare opinioni sul lavoro del libraio che fanno rabbrividire. Allora si cominciava con il lavorare per qualche mese in magazzino. Tra pesanti colli da ricevere, bolle da controllare, libri da sistemare sul bancone, si prendeva una sorta di confidenza fisica con l'oggetto libro. E si imparava a valutare l'importanza del controllo del flusso dei libri dal magazzino alla libreria. Non tutti i momenti erano buoni per far arrivare ai librai la merce ricevuta e lavorata. In magazzino si controllava che il prezzo segnato sulla bolla corrispondesse a quello di copertina. Un lavoro che ora sembra superfluo. Infatti non si contano i libri che arrivano alla cassa con discrepanze in tal senso. E uno dei primi concetti che si impregnavano nella testa era quello dell'umiltà. Quando si aprivano i colli i libri venivano divisi per editore in modo tale che si spuntassero più o meno nello stesso ordine con cui erano registrati nella bolla. Anche questo sembra un lavoro superfluo. Invece consentiva di sapere subito se un libro era arrivato, senza andarlo a cercare a caso sotto una marea di altri suoi simili. E questa era un'altra lezione: non si lavora da soli ma tenendo conto delle dinamiche di gruppo. Il magazzino veniva considerato nevralgico per il funzionamento della libreria. C'è ancora qualcuno che insegna questo? Bene, dopo circa tre mesi di magazzino si passava in libreria. E qui si continuava con l'impostazione artigianale di cui parlavo prima. La giornata cominciava con lo straccio della polvere. Si spolveravano gli scaffali e i libri. Lavoro umile? Certo. Ma essenziale. Nel lavoro non bisogna focalizzare l'attenzione solo sull'immediato, sul gesto contingente che si sta compiendo. C'è sempre altro. In questo caso fare la polvere non era solo pulire. Significava prendere in mano i libri per sistemare lo scaffale, sfogliarli per capire se fossero posizionati nel giusto settore, decidere di metterli di faccia perché avessero una visibilità diversa. E si imparava a rendere vivo e dinamico uno scaffale. Ma sempre c'era un rapporto fisico con i libri. Bisognava toccarli, guardarli, prenderli in mano. Lo stesso avveniva con il sistema di schedatura e riordino. All'interno di ogni libro (o di una copia se si trattava di libri in numero superiore a uno per lo stesso titolo) c'era una scheda con la carta di identità del libro: autore, titolo, editore, giorno di uscita in libreria, numero di copie arrivate. Quando il libro arrivava alla cassa, la cassiera levava questa scheda e la riponeva in un cassetto. Ad un certo punto della giornata i librai raccoglievano le schede e iniziavano il lavoro di rifornimento. Le schede, che raccontavano la vita del libro costringevano ancora una volta a confrontarsi fisicamente con esso. Il libraio era costretto a girare per il negozio per guardare con gli occhi l'andamento delle vendite e decidere cosa fare di quella scheda: riordinare il libro o reinfilare la scheda in una delle copie di quel titolo. Certo ci si metteva forse qualche minuto in più, ma non si assisteva a storture come quelle odierne di un libraio che riordina i libri guardando solo lo schermo di un computer. Raccolte le schede si dividevano per distributore e si scrivevano i fax a mano. Capite cosa voleva dire, per la memoria bibliografica, scrivere ogni giorno titolo, autore, editore? A questo si aggiunga che, all'epoca, il computer veniva usato solo come banca dati. Non riportava le giacenze dei titoli e il loro settore. Questo implicava che una volta individuato il titolo era il libraio che doveva ricordarsi se quel libro era presente in libreria e dove. Non sono mai stata, per natura, incline a uno sguardo malinconico sul passato. ma forse, senza accorgermene lo sono diventata per ragioni anagrafiche. Lungi da me l'idea di criticare ogni aspetto di modernizzazione del mestiere del libraio. Le cose cambiano, si evolvono. I tempi si accelerano e ogni cosa sembra doversi adeguare a questo.Pensare che il mestiere del libraio potesse esimersi da questo sarebbe stato forse un po' patetico e anacronistico. Ma come tutte le persone che diventano adulte comincio a capire che i proverbi hanno più di un fondo di verità. E dire che "non bisogna buttare anche il bambino insieme all'acqua sporca" è per me qualcosa di più di una citazione popolare. Nel mio tentativo di rivalutare, forse inutilmente, metodi di lavoro non proprio aggiornati, e il farlo attraverso i proverbi c'è qualcosa di più. C'è il desiderio di non perdere, ammesso che ci sia mai stata, una cultura del mestiere. Un recupero anche solo come grido di aiuto di un elemento manuale imprescindibile per fare questo lavoro. Certo ci vogliono letture, tante, curiosità. Ma queste sono un valore aggiunto. Quando sento ragazzi che vogliono lavorare in libreria e portano come motivazione principale il fatto che amano leggere mi viene da urlare di rabbia. Perché, con il tempo e l'esperienza ho imparato a capire cosa c'è dietro questa affermazione. Detto questo una riflessione sui supporti tecnologici su cui oggi possiamo contare. Programmi informatici studiati apposta per la gestione della libreria sono una mano santa. Non sono così vetusta da osare azzardarlo. Sempre tenendo ben presente che questi mezzi sono solo un affiancamento alla professionalità. Non la sostituiscono. La aiutano e l'amplificano. Solo se questa professionalità c'è. Io dico sempre che un libraio imbecille davanti a un computer non diventa un bravo libraio. Resta un imbecille. Non è comunque un caso che il softwer migliore per la gestione sia Macbook, studiato e realizzato da librai. Credo che come prima puntata di questo viaggio nel lavoro di libraia possa bastare. Giusto per far capire di cosa si sta parlando
Geraldine Meyer
Il bisogno di scrivere
Quando la chiacchierata con un amico diviene occasione per riflettere e riflettere ancora
L'altro giorno un amico mi ha chiesto: «Ma insomma, questo tuo rapporto con la scrittura è una malattia o è qualcosa che ti fa star bene?!. Lì per lì non mi sono accorta che quella questione stava entrando nel mio cervello e che ci sarebbe rimasta per un tempo ben più lungo di quello necessario a formulare la risposta. Ho continuato a fare il mio lavoro, ma qualcosa mi distraeva più del solito. Poi sono arrivata a casa e mi sono resa conto che a scavarmi dentro era una semplice letterina. Quella “o” usata dal mio amico rimbalzava tra le mie sinapsi reclamando attenzione. Finalmente ho capito che la risposta che avrei dovuto dare poteva ricalcare le stesse esatte parole del mio amico ma con una minuscola differenza: la scrittura per me è una malattia e mi fa star bene. Quella “o” doveva essere sostituita da una “e”. Mi verrebbe da dire che la sfumatura è semplicemente un abisso.
Come può una malattia far stare bene? Hai presente quando una febbre non troppo forte ti consente di non andare al lavoro pur non mettendoti del tutto fuori gioco? Non è quasi languido startene a letto a leggere, e a bere un tè caldo? Oppure sdraiarti sul divano a fare un po' di famigerato zapping? Scrivere per me è questo. È la malattia dell'illusione che aiuta a costruirsi un'alternativa a un lavoro che non piace più; malattia dell'alibi per non fare cose che non ci divertono («No sai, verrei a bere un aperitivo ma devo scrivere...»); giustificazione agli occhi del mondo per una misantropia che in realtà non si avrebbe neanche più voglia di giustificare. Presa di distanza da un immediato talora troppo invasivo. Calvino ha scritto parole insuperate riguardo alla necessità di una scrittura che eviti la visione diretta delle cose.
La magia delle parole. Allora le parole aiutano una messa a fuoco più precisa, inducono a un respiro più profondo. Vestono i pensieri di abiti meno affrettati. Ho sempre avuto un gran rispetto, anzi direi proprio un amore folle per la parola scritta. Per la parola ben scritta. Isaac Babel diceva che non c'è ferro capace di colpire un cuore più di un punto messo al posto giusto. La scrittura è mestiere in questo senso. Per qualunque motivo mi trovi a immergermici, affronto la fatica del vero e proprio lavoro. Forse perché nella mia vita avrei voluto darle uno spazio ben diverso, le dedico quelle attenzioni miste di amore e senso di colpa che, per esempio, dedicano ai figli i genitori separati. Ma spesso accade che ciò che più amiamo sia anche ciò cui riusciamo a dedicare meno tempo. Ancora una volta trovo conforto nelle letture fatte e, a tal proposito consiglio di leggere Il mestiere di scrivere di Raymond Carver. Davvero formative le pagine in cui racconta le condizioni in cui spesso scriveva; tra figli urlanti, ore strappate al sonno, nei posti più disparati e disperati. Eppure, nonostante, o forse proprio per questo, non ha mai smesso di rileggere e riscrivere. In un continuo lavoro di cesello. La scrittura è un mestiere quotidiano. Che ci dia da vivere, che sia una passione o, semplicemente qualcosa a cui talvolta si deve ricorrere, non dovrebbe essere affidata all'estemporaneità di due righe messe in fila. Qualunque altra attività richiede allenamento, gavetta, esperienza, dedizione e regole. Spesso quest'ultimo aspetto viene vissuto come una gabbia, come qualcosa che non ha niente a che fare con lo scrivere. Come se questo mestiere uscisse impoverito da norme, regole e motivi. Non sono mai stata anarchica nella mia vita e non lo sono neanche rispetto alla scrittura. Il bisogno che ho sempre avvertito di scrivere non mi si è mai presentato come qualcosa di disordinatamente sregolato.
Come si scrive e si legge. Ricordo spesso con grande affetto e ammirazione il mio professore di filosofia del liceo. Usava sempre dire che la vita è semplice. Il difficile è semplificarla. Io ho dato, ogni giorno della mia vita, una lettura molto rigorosa a queste parole. E le ho lette come un monito al duro lavoro per raggiungere la semplicità e la spontaneità. La spontaneità non è qualcosa di innato. Anche se sembra un ossimoro non esiste spontaneità senza regole. Basta vedere la volgarità di chi pensa di poter fare l'attore solo perché ha partecipato a qualche reality. E invece la leggerezza di alcune interpretazioni di attori che hanno sudato lacrime e sangue nelle scuole di arte drammatica. Perché con la scrittura dovrebbe essere diverso? Il mio bisogno di scrivere è sempre andato di pari passo con il mio bisogno di leggere. Non sono mai riuscita a considerare disgiunte le due cose. Indipendentemente da ciò che ho poi davvero scritto o abortito in qualche cassetto, sono sempre stata consapevole degli strati di bellezza che i libri andavano accumulando nella mia testa, senza paura di trovarmi a usare parole non mie ogni qualvolta mi mettevo a scrivere qualcosa.
Siamo sempre in debito con qualcuno. Harold Bloom scrisse un libro splendido sull'argomento, intitolato L'angoscia dell'influenza. Racconta come la paura, conscia o inconscia, di essere influenzati da altri scrittori, per giungere a una malintesa e inutile originalità, porti a un impoverimento della letteratura stessa. È impossibile non essere influenzati da chi ha scritto prima di noi. Quindi è importante saper leggere per arrivare a saper scrivere. Non è solo una questione di grammatica, si tratta proprio di assorbire quelle regole sottese a ogni testo. Che non impoveriscono il bisogno di scrivere, né gli tolgono quello slancio incontenibile che spesso avverto. Questo almeno per quanto riguarda la forma, non meno importante della sostanza. Riuscire a scrivere un libro, un racconto o un articolo è qualcosa che nessun testo può insegnare. Questo è qualcosa che fa parte di un altro registro. Per quanto mi riguarda si tratta di mettere una sorta di cornice ai pensieri, o se vogliamo, come inserire un contrappunto di silenzio alle note di una musica. Insomma una sorta di pausa attiva. Nella mia vita poi la scrittura ha rivestito un ruolo di post it. Una sorta di memento, tanto più trascurato quanto più avvertito come urgente. Come se il mio lavoro di libraia, che dura da ventidue anni e che doveva essere solo una manovra di avvicinamento a un altro modo di vivere nei libri, abbia finito con il diventare una sorta di preservativo a un desiderio che non riuscivo a soddisfare. Allora ho continuato, sempre più stancamente per la verità, a vendere le storie altrui. Rigirandomi tra le mani questi oggetti cartacei, pensando e nello stesso momento impedendomi di pensare a un progetto diverso.
Ma le parole trascinano. Non è possibile vivere in mezzo ai libri per così tanti anni senza lasciarsi travolgere dalle storie. Che richiamano la lettura di altre storie ma anche un desiderio di interloquire a nostra volta con storie nostre. In un continuo dialogo a distanza di tempo e spazio con altri autori.
Il bisogno di scrivere sembra riguardare molte persone. Che si tratti di romanzi, di racconti, di poesie, di post sui social network, ciò che appare evidente è una marea montante di bisogno di dire. I social network meritano considerazioni a parte. Non è questa la sede. Ma la produzione libraria sembra indicare uno strabordante desiderio di scrivere e condividere. Mi sembra necessario fare una precisazione: do per scontato che la scrittura di cui si parla qui, indipendentemente dalla qualità, abbia come denominatore comune un sincero sottofondo di condivisione. La mercificazione è altra cosa, ma ci arriveremo tra poco. Anzi, arriviamoci subito. Da libraia posso dire che mi trovo d'accordo con Ricci che, in forma di favola, sostiene che la ricerca spasmodica per costruire un best seller abbia in realtà prodotto una serie infinita di un libro sempre uguale. La ricerca di elementi accattivanti per il lettore produce una uniformità di forme e modi. Ritengo che questo dipenda dalla tendenza alla spettacolarizzazione della letteratura. Uso questo termine con circospezione perché sappiamo che la letteratura è altro. Diciamo allora produzione letteraria.
Leggere è difficile tanto quanto scrivere. Se c'è sciatteria anche in chi dovrebbe leggere per lavoro, se il criterio principale è il tornaconto economico (importante per carità, nessuno lo disconosce), ciò che arriva alle stampe non può che assomigliare e rispondere a un unico copione. Se la letteratura, la scrittura, riflettono la società in cui si vive, non c'è da sorprendersi se l'offerta ricalca quella che sembra essere la domanda dei più: evasione, conferma delle proprie idee. Nessuno scossone, nessuna sorpresa neanche nei libri. Le eccezioni ci sono per fortuna, ma sono eccezioni appunto.
Nel mondo della scrittura sembra prevalere la cultura del bigino. Mi accorgo che sto invecchiando perché comincio a fare discorsi nostalgici sulla letteratura e sull'editoria di un tempo. Credo però che davvero la visibilità sia stato un virus che ha cominciato tempo fa a minare ciò che doveva essere la peculiarità della comunicazione scritta. Da qui la tendenza a pensieri rimasticati, nozioni riassunte e passaggi televisivi. La faccia, bella o brutta di chi scrive, in televisione si conquista credibilità in dieci minuti.
Viva la televisione. Sono grata, come libraia, a trasmissioni che hanno ricadute sulle vendite. I tempi cambiano, per carità, e i mezzi e i modi per veicolare un messaggio evolvono ogni istante. Talvolta però penso alla fatica di noi librai per esporre un libro, leggerlo, parlarne. Tirarlo fuori dalle scatole, trovargli una collocazione significa un po' affezionarglisi. E spesso lo si deve rimettere, invenduto, nelle scatole destinate alle rese. Poi arriva un'intervista proprio allo scrittore di quel libro e tutti a riversarsi in libreria perché ne ha parlato la televisione. E un libraio si sente inutile. E forse un po' lo è. Ma non può non lasciarmi un certo amaro in bocca il pensiero di un mestiere di leggere-scrivere-vendere che dovrebbe vivere di sottrazione. Rigore, precisione e sottrazione. Soprattutto sottrazione di sé. E penso a Bobbi Bazlen, grande lettore, fondatore della casa editrice Adelphi, scopritore di veri talenti e perle letterarie. Aveva i cassetti stracolmi di pensieri, considerazioni, riflessioni, indicazioni editoriali e letterarie. Non ha mai pubblicato nulla e nell'ambiente letterario dei tempi, con vero rispetto e nessuna ironia, veniva considerato il più grande non scrittore. Solo anni dopo la sua morte, Roberto Calasso ha pubblicato alcuni suoi scritti. Ne consiglio davvero la lettura; sono una lezione di cultura, umiltà, amore per i libri e per lo scrivere. Fidatevi per una volta del consiglio di una libraia. Anche perché Bazlen è morto e in televisione non ci andrà mai.
Quando la chiacchierata con un amico diviene occasione per riflettere e riflettere ancora
L'altro giorno un amico mi ha chiesto: «Ma insomma, questo tuo rapporto con la scrittura è una malattia o è qualcosa che ti fa star bene?!. Lì per lì non mi sono accorta che quella questione stava entrando nel mio cervello e che ci sarebbe rimasta per un tempo ben più lungo di quello necessario a formulare la risposta. Ho continuato a fare il mio lavoro, ma qualcosa mi distraeva più del solito. Poi sono arrivata a casa e mi sono resa conto che a scavarmi dentro era una semplice letterina. Quella “o” usata dal mio amico rimbalzava tra le mie sinapsi reclamando attenzione. Finalmente ho capito che la risposta che avrei dovuto dare poteva ricalcare le stesse esatte parole del mio amico ma con una minuscola differenza: la scrittura per me è una malattia e mi fa star bene. Quella “o” doveva essere sostituita da una “e”. Mi verrebbe da dire che la sfumatura è semplicemente un abisso.
Come può una malattia far stare bene? Hai presente quando una febbre non troppo forte ti consente di non andare al lavoro pur non mettendoti del tutto fuori gioco? Non è quasi languido startene a letto a leggere, e a bere un tè caldo? Oppure sdraiarti sul divano a fare un po' di famigerato zapping? Scrivere per me è questo. È la malattia dell'illusione che aiuta a costruirsi un'alternativa a un lavoro che non piace più; malattia dell'alibi per non fare cose che non ci divertono («No sai, verrei a bere un aperitivo ma devo scrivere...»); giustificazione agli occhi del mondo per una misantropia che in realtà non si avrebbe neanche più voglia di giustificare. Presa di distanza da un immediato talora troppo invasivo. Calvino ha scritto parole insuperate riguardo alla necessità di una scrittura che eviti la visione diretta delle cose.
La magia delle parole. Allora le parole aiutano una messa a fuoco più precisa, inducono a un respiro più profondo. Vestono i pensieri di abiti meno affrettati. Ho sempre avuto un gran rispetto, anzi direi proprio un amore folle per la parola scritta. Per la parola ben scritta. Isaac Babel diceva che non c'è ferro capace di colpire un cuore più di un punto messo al posto giusto. La scrittura è mestiere in questo senso. Per qualunque motivo mi trovi a immergermici, affronto la fatica del vero e proprio lavoro. Forse perché nella mia vita avrei voluto darle uno spazio ben diverso, le dedico quelle attenzioni miste di amore e senso di colpa che, per esempio, dedicano ai figli i genitori separati. Ma spesso accade che ciò che più amiamo sia anche ciò cui riusciamo a dedicare meno tempo. Ancora una volta trovo conforto nelle letture fatte e, a tal proposito consiglio di leggere Il mestiere di scrivere di Raymond Carver. Davvero formative le pagine in cui racconta le condizioni in cui spesso scriveva; tra figli urlanti, ore strappate al sonno, nei posti più disparati e disperati. Eppure, nonostante, o forse proprio per questo, non ha mai smesso di rileggere e riscrivere. In un continuo lavoro di cesello. La scrittura è un mestiere quotidiano. Che ci dia da vivere, che sia una passione o, semplicemente qualcosa a cui talvolta si deve ricorrere, non dovrebbe essere affidata all'estemporaneità di due righe messe in fila. Qualunque altra attività richiede allenamento, gavetta, esperienza, dedizione e regole. Spesso quest'ultimo aspetto viene vissuto come una gabbia, come qualcosa che non ha niente a che fare con lo scrivere. Come se questo mestiere uscisse impoverito da norme, regole e motivi. Non sono mai stata anarchica nella mia vita e non lo sono neanche rispetto alla scrittura. Il bisogno che ho sempre avvertito di scrivere non mi si è mai presentato come qualcosa di disordinatamente sregolato.
Come si scrive e si legge. Ricordo spesso con grande affetto e ammirazione il mio professore di filosofia del liceo. Usava sempre dire che la vita è semplice. Il difficile è semplificarla. Io ho dato, ogni giorno della mia vita, una lettura molto rigorosa a queste parole. E le ho lette come un monito al duro lavoro per raggiungere la semplicità e la spontaneità. La spontaneità non è qualcosa di innato. Anche se sembra un ossimoro non esiste spontaneità senza regole. Basta vedere la volgarità di chi pensa di poter fare l'attore solo perché ha partecipato a qualche reality. E invece la leggerezza di alcune interpretazioni di attori che hanno sudato lacrime e sangue nelle scuole di arte drammatica. Perché con la scrittura dovrebbe essere diverso? Il mio bisogno di scrivere è sempre andato di pari passo con il mio bisogno di leggere. Non sono mai riuscita a considerare disgiunte le due cose. Indipendentemente da ciò che ho poi davvero scritto o abortito in qualche cassetto, sono sempre stata consapevole degli strati di bellezza che i libri andavano accumulando nella mia testa, senza paura di trovarmi a usare parole non mie ogni qualvolta mi mettevo a scrivere qualcosa.
Siamo sempre in debito con qualcuno. Harold Bloom scrisse un libro splendido sull'argomento, intitolato L'angoscia dell'influenza. Racconta come la paura, conscia o inconscia, di essere influenzati da altri scrittori, per giungere a una malintesa e inutile originalità, porti a un impoverimento della letteratura stessa. È impossibile non essere influenzati da chi ha scritto prima di noi. Quindi è importante saper leggere per arrivare a saper scrivere. Non è solo una questione di grammatica, si tratta proprio di assorbire quelle regole sottese a ogni testo. Che non impoveriscono il bisogno di scrivere, né gli tolgono quello slancio incontenibile che spesso avverto. Questo almeno per quanto riguarda la forma, non meno importante della sostanza. Riuscire a scrivere un libro, un racconto o un articolo è qualcosa che nessun testo può insegnare. Questo è qualcosa che fa parte di un altro registro. Per quanto mi riguarda si tratta di mettere una sorta di cornice ai pensieri, o se vogliamo, come inserire un contrappunto di silenzio alle note di una musica. Insomma una sorta di pausa attiva. Nella mia vita poi la scrittura ha rivestito un ruolo di post it. Una sorta di memento, tanto più trascurato quanto più avvertito come urgente. Come se il mio lavoro di libraia, che dura da ventidue anni e che doveva essere solo una manovra di avvicinamento a un altro modo di vivere nei libri, abbia finito con il diventare una sorta di preservativo a un desiderio che non riuscivo a soddisfare. Allora ho continuato, sempre più stancamente per la verità, a vendere le storie altrui. Rigirandomi tra le mani questi oggetti cartacei, pensando e nello stesso momento impedendomi di pensare a un progetto diverso.
Ma le parole trascinano. Non è possibile vivere in mezzo ai libri per così tanti anni senza lasciarsi travolgere dalle storie. Che richiamano la lettura di altre storie ma anche un desiderio di interloquire a nostra volta con storie nostre. In un continuo dialogo a distanza di tempo e spazio con altri autori.
Il bisogno di scrivere sembra riguardare molte persone. Che si tratti di romanzi, di racconti, di poesie, di post sui social network, ciò che appare evidente è una marea montante di bisogno di dire. I social network meritano considerazioni a parte. Non è questa la sede. Ma la produzione libraria sembra indicare uno strabordante desiderio di scrivere e condividere. Mi sembra necessario fare una precisazione: do per scontato che la scrittura di cui si parla qui, indipendentemente dalla qualità, abbia come denominatore comune un sincero sottofondo di condivisione. La mercificazione è altra cosa, ma ci arriveremo tra poco. Anzi, arriviamoci subito. Da libraia posso dire che mi trovo d'accordo con Ricci che, in forma di favola, sostiene che la ricerca spasmodica per costruire un best seller abbia in realtà prodotto una serie infinita di un libro sempre uguale. La ricerca di elementi accattivanti per il lettore produce una uniformità di forme e modi. Ritengo che questo dipenda dalla tendenza alla spettacolarizzazione della letteratura. Uso questo termine con circospezione perché sappiamo che la letteratura è altro. Diciamo allora produzione letteraria.
Leggere è difficile tanto quanto scrivere. Se c'è sciatteria anche in chi dovrebbe leggere per lavoro, se il criterio principale è il tornaconto economico (importante per carità, nessuno lo disconosce), ciò che arriva alle stampe non può che assomigliare e rispondere a un unico copione. Se la letteratura, la scrittura, riflettono la società in cui si vive, non c'è da sorprendersi se l'offerta ricalca quella che sembra essere la domanda dei più: evasione, conferma delle proprie idee. Nessuno scossone, nessuna sorpresa neanche nei libri. Le eccezioni ci sono per fortuna, ma sono eccezioni appunto.
Nel mondo della scrittura sembra prevalere la cultura del bigino. Mi accorgo che sto invecchiando perché comincio a fare discorsi nostalgici sulla letteratura e sull'editoria di un tempo. Credo però che davvero la visibilità sia stato un virus che ha cominciato tempo fa a minare ciò che doveva essere la peculiarità della comunicazione scritta. Da qui la tendenza a pensieri rimasticati, nozioni riassunte e passaggi televisivi. La faccia, bella o brutta di chi scrive, in televisione si conquista credibilità in dieci minuti.
Viva la televisione. Sono grata, come libraia, a trasmissioni che hanno ricadute sulle vendite. I tempi cambiano, per carità, e i mezzi e i modi per veicolare un messaggio evolvono ogni istante. Talvolta però penso alla fatica di noi librai per esporre un libro, leggerlo, parlarne. Tirarlo fuori dalle scatole, trovargli una collocazione significa un po' affezionarglisi. E spesso lo si deve rimettere, invenduto, nelle scatole destinate alle rese. Poi arriva un'intervista proprio allo scrittore di quel libro e tutti a riversarsi in libreria perché ne ha parlato la televisione. E un libraio si sente inutile. E forse un po' lo è. Ma non può non lasciarmi un certo amaro in bocca il pensiero di un mestiere di leggere-scrivere-vendere che dovrebbe vivere di sottrazione. Rigore, precisione e sottrazione. Soprattutto sottrazione di sé. E penso a Bobbi Bazlen, grande lettore, fondatore della casa editrice Adelphi, scopritore di veri talenti e perle letterarie. Aveva i cassetti stracolmi di pensieri, considerazioni, riflessioni, indicazioni editoriali e letterarie. Non ha mai pubblicato nulla e nell'ambiente letterario dei tempi, con vero rispetto e nessuna ironia, veniva considerato il più grande non scrittore. Solo anni dopo la sua morte, Roberto Calasso ha pubblicato alcuni suoi scritti. Ne consiglio davvero la lettura; sono una lezione di cultura, umiltà, amore per i libri e per lo scrivere. Fidatevi per una volta del consiglio di una libraia. Anche perché Bazlen è morto e in televisione non ci andrà mai.
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