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mercoledì 25 agosto 2010

Alcune mie passate recensioni

 Di questo libro, secondo me, non si è parlato abbastanza. Peccato


Gianni Canova è uomo di cinema e studioso di immagini; anche non conoscendo la sua specificità professionale, lo si sarebbe intuito leggendo il suo esordio letterario. Palpebre è una spietata lettura del mondo contemporaneo mascherata da thriller. Un libro duro, estremo, a tratti violento. Ma di una violenza non gratuita. Semmai inestricabile e funzionale alla storia. Un viaggio in quelle zone poco illuminate dell'animo e che solo uno sforzo di onestà intellettuale può portare a farci ammettere non essere estranee a nessuno di noi. Guardare, essere guardati, deformare il corpo fino all'estremo sono gli agganci narrativi che Canova utilizza per raccontarci altro.

Giovanni Vigo, giornalista e studioso di Dante, si trova coinvolto in una storia al limite del grottesco se non fosse così straniante e spaventosa. Uno sguardo non dato a una bellissima sconosciuta diventa una pericolosa ossessione. Inizia un'indagine aiutato dall'amico Simmel, giornalista di Radio Popolare. Si troveranno così immersi in una vicenda di video estremi e orrendi omicidi.

La trama di per sé non regala niente di nuovo se non fosse per la costruzione perfetta e per l'immediata sensazione che ci sia dell'altro. Canova conosce molto bene il cinema e costruisce un romanzo che, non a caso, si guarda più che leggerlo. E questo penso sia il più sottile espediente interpretativo oltre che narrativo dell'autore. Come se avesse voluto usare un eccesso visivo proprio per metterci in guardia dall'eccesso stesso.

I tempi, i dialoghi si susseguono con maestria portandoci all'interno di un meccanismo più che di una storia. E questo credo sia un elemento di estremo interesse in questo libro. Un meccanismo, antico e attualissimo insieme, non estraneo ai feroci e violenti dipinti del Caravaggio o alla pratica della cucitura delle ciglia di cui parlava Dante. Inserti colti che l'autore mette tra le pagine proprio come fossero altri fotogrammi in un continuum filmico cartaceo. Insisto su questo elemento perché la cifra del libro ritengo sia esattamente questa. Fino a che punto si è disposti ad arrivare prima di avvertire come intollerabile ciò che si sta guardando? Quando un'immagine diventa così violenta da indurci a chiudere gli occhi? E quando e come, purtroppo, un'immagine mostruosa diventa così eccitante da incollare il nostro sguardo ad essa fino a farla diventare una cosa normale?

Non a caso il libro si svolge in uno spazio temporale molto breve che ha come sfondo la visione del film di Tarantino Kill Bill (scelta non casuale), le immagini delle decapitazioni degli ostaggi occidentali durante la guerra in Iraq e le trasmissioni televisive tanto più volgari e violente quanto più "dolcemente" pericolose nella loro "normalità". Il messaggio che viene suggerito in questo testo è proprio la valenza politica di ciò che si guarda e del modo in cui lo si fa. Quando subentra una sorta di assuefazione che spinge a voler guardare qualcosa di ancora più orribile vuol dire che il virus della complicità è già in circolo.

Allora il piacere anche sessuale di guardare un corpo mostruoso (nel senso etimologico del termine) entra a far parte di un meccanismo che spinge troppo al di fuori di noi la nostra capacità di critica. Da qui la pratica di cucire le ciglia, di cui parlava Dante, per punire chi non si era guardato abbastanza dentro. Occhi, sguardi, visione, televisione; tutto sembra concorrere a sopire i cervelli.
Non per nulla ho iniziato dicendo che questo libro sembra essere un pamphlet sotto forma di romanzo. Un messaggio altro veicolato da immagini più immediatamente fruibili. E forse è proprio a questo meccanismo che l'autore suggerisce di prestare attenzione. Perché il guardare non è mai un atto neutro. Nell'estetica c'è sempre un'etica. Nelle immagini che spesso sembrano fatte apposta per portare a una visione standardizzata e becera, unica e senza sussulti di coscienza, si cela spesso un messaggio subliminale. Se da questo è difficile sfuggire, proprio perché subliminale, è bene però esserne almeno consapevoli.

Da questo pericolo non è esente neanche il sesso. L'elemento che più dovrebbe renderci unici, innalzarci per un istante al di sopra dell' uniformità, diviene parte di un ingranaggio consumistico. Come se anche il sesso guardasse e volesse essere guardato: senza essere davvero visto.

 Un altro meccanismo su cui vorrei soffermarmi è proprio la reiterazione delle immagini. Questo libro è ovviamente composto da tante vicende, dettagli, particolari. Eppure, dopo averlo letto, sembra che attaccate al ricordo rimangano solo le impressioni di rocambolesco e quindi quasi ironico cinismo. Come ad un certo punto del film Kill Bill veniva quasi da ridere davanti a tanta violenza sopra le righe, così in questo libro viene la tentazione di relegare il tutto dietro un ghigno distaccato.

Questo è il potere pericoloso delle immagini. Tanto più vengono guardate quanto più diventano un supporto imprescindibile per vivere anche ciò che di immagini potrebbe fare a meno. Per lo meno di immagini indotte, che diventano una sorta di immagini autoreferenziali. Credo che Canova abbia davvero colto nel segno scrivendo un libro che potrebbe avere, come equivalente cinematografico, un film che narri la storia della preparazione di un film. O una trasmissione televisiva il cui plot sia il dietro le quinte della realizzazione di una trasmissione televisiva. Immagini che vivono e si nutrono di sé stesse e di sguardi conniventi e passivi.

Questo testo potrebbe essere tenuto accanto ad altri libri, come suggestione dopo che si è visitata una mostra, dopo essere stati al cinema, davanti alla televisione. Il tarlo del dubbio che insinua è trasversale e interdisciplinare. Tutto ciò che richiede, nella fruizione, una percentuale più o meno preponderante di visione dovrebbe tenere conto di un modo di guardare diverso. Un modo che lasci spazio alla coscienza critica e che non diventi solo un enorme occhio che tutto tiene sotto controllo per non vedere ciò che sempre interroga se lo si guarda davvero.
Non sembri troppo forzato ritenere che ciò che si guarda non sia esente dalle storture consumistiche.

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