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martedì 20 aprile 2010

la vendita è donna

Mentre raccolgo materiale per la lezione che terrò a Cremona sulla scrittura femminile, ripropongo un mio articolo sulla vendita.

LA VENDITA E’ DONNA. IL LINGUAGGIO DELL’ACCOGLIENZA NEGLI ESERCIZI COMMERCIALI. PICCOLE E BREVI CONSIDERAZIONI

Qualche lettura e sei anni di analisi mi hanno insegnato che non bisognerebbe mai iniziare un discorso con una negazione. Ma il linguaggio è una creatura viva e in quanto tale mutevole, in evoluzione, inafferrabile. Le sfumature richiedono intelligenza nel senso etimologico del termine. Ma proprio perché sfumature esigono lealtà. Allora inizio dicendo che questo scritto non è una relazione e non è neanche un insieme di teorie. Non ne ha la scientificità e il rigore. E’ semmai una serie di considerazioni basate sull’esperienza. Ventidue anni di negozio mi hanno portata a maturare alcune idee. Allora diciamo un racconto come saluto ad un’esperienza che comunque mi ha dato tanto. Ma proprio perché non ha, e forse non vuole neanche avere una pretesa di scientificità, credo che si dipanerà all’insegna di tanti punti di domanda. Devo confessare che nella punteggiatura il segno interrogativo è quello che prediligo in assoluto. Mi è simpatico, più sbarazzino nella sua curva, meno tronfio della verticalità del punto esclamativo e meno falsamente timido (nella sua piccolezza) del punto e basta. Beh con queste premessa il rischio è quello di partire pensando ad una meta e arrivare ad un’altra. Non è fantastico pensandoci bene? Allora cominciamo con due semplici osservazioni. Provate a pensare a quante volte, entrando in un negozio o anche solo passandoci davanti avete avuto a che fare con donne. E quanti uomini? Di meno o di più? E in quale caso vi siete sentiti più a vostro agio? In linea di massima intendo, così come sensazione. Ripeto le mie non sono teorie quindi queste, anche se così può sembrare, non sono domande retoriche. Sto ragionando insieme a chi mi legge. Dal momento che non ho tesi da difendere non mi riesce difficile dire che mi è capitato di avere a che fare con venditori estremamente empatici (se così si può dire) e venditrici che mi facevano capire che il loro più grande desiderio era che me ne andassi velocemente. Però non è capitato spessissimo. Insomma posso dire che a livello epidermico ci si sente più accolti da una donna? E posso dire che a livello di aspettativa una donna ci fa pensare che saremo accolti meglio? Forse ha qualcosa a che fare con la figura materna, destinataria fin dalla nostra più tenera età di ogni nostra richiesta e (quando va bene) dispensatrice di calore e sorrisi. Può essere. Ma mentre scrivo mi accorgo che quando dico che la vendita è donna penso a qualcosa che non ha a che fare solo con una differenza di genere. Mi spiego. Avete mai pensato a come, spesso, volendo fare un complimento alla delicatezza, sensibilità, attenzione di un uomo vi siete trovati a dire “ha un che di femmineo. Ha un animo quasi femminile”. E femminile non è effeminato. Mi viene da pensare che dire la vendita è donna abbia a che fare anche con una sorta di attitudine. E’ qualcosa che riguarda la modulazione delle parole. Non si tratta solo di sorridere ma di sedurre, nel senso di portare a sè. E questo richiede che chi vende abbia, in qualche modo, acquistato ciò che sta vendendo. Ed è innegabile che le donne (in questo caso sì come genere) abbiano una maggiore facilità nel far loro affettivamente e linguisticamente ciò che vendono. Credo di avere sempre avuto una certa difficoltà a ragionare in astratto. Mi piace legare le mie idee a qualcosa di concreto, qualcosa che accompagni una considerazione a un caso specifico. Vorrei fare qui l’esempio di due donne venditrici, in campi completamente diversi; una è una mia collaboratrice in libreria, Rosy. L’altra è una grande cuoca, proprietaria di un ristorante nel viterbese, Miriam. Strada facendo vi spiegherò perché considero grande venditrice una ristoratrice. Partiamo da Rosy. A parte una simpatia innata e un carattere trascinante essa attua, ogni volta, accorgimenti tecnici direi sofisticati. Quando un cliente chiede un libro che abbiamo reso, Rosy non dice mai questo. Sostiene sempre che il libro è stato venduto. Un po’ perché così da l’idea di una libreria che funziona e sa di cosa sta parlando il cliente. Un pò lo fa sentire accolto perché dire che il libro che sta cercando è stato reso può essere recepito come un giudizio di valore su ciò che sta cercando. Capite cosa mi ha insegnato questa donna? E in tutta la mia lunga carriera solo lei mi ha dato una dritta del genere. E vi assicuro che ho lavorato con dei signor professionisti. Beh, non so voi, ma io questa cura verso una richiesta di un cliente la trovo molto femminile. Non dare mai la sensazione di sottovalutare una richiesta (anche se magari la troviamo davvero stupida) lo trovo molto delicato. E siccome questo è veramente un work in progress mi accorgo che più che dire che la vendita è donna è meglio dire che la vendita diviene donna. E lo diviene attraverso l’uso di parole piuttosto che altre, modulate quasi come andassero a comporre un racconto. Succede spesso che quando si vuole riportare un esempio di saggezza e buon senso ci si rifaccia a un modo di dire, a un proverbio e quasi sempre l’autrice evocata di questa sapienza è una donna: “Come diceva la mia nonna....” “Mia madre mi diceva sempre.....” Le donne come depositarie di parole e storie, racconti e favole. Non si tratta di fare una classifica, semplicemente di accorgersi di come gli uomini (intesi come maschi) vengano considerati custodi di altre cose. Un altro esempio: un cliente difficile, aggressivo. La prima tentazione sarebbe (e molto spesso è) quella di irrigidirsi a nostra volta. Rosy invece sembra diventare di gomma e con parole leggere, morbide di sicuro ironiche, riesce a smontare, a destrutturare il discorso del cliente. E con il discorso anche la sua aggressività. Perché il linguaggio parla di chi lo usa e si abbarbica al nostro stato d’animo divenendo forma verbalizzata di ciò che sentiamo in quel momento. E così una situazione che poteva diventare conflittuale si trasforma in uno scambio linguistico e umano meno mortificante. Nessuno vince o perde. Però, di solito, Rosy, porta a casa una vendita. E ancora una volta penso a come le mamme spesso riescono a far mangiare i più riottosi dei figli. Di fronte a bocche cucite come resistenti reti da pesca, anziché insistere sullo stesso piano, le mamme trasformano quel momento in un gioco. E allora vai di aerei carichi di pappa che atterrano in aereoporti chiusi, navi a forma di cucchiaino che attraccano, trenini che arrivano in stazione con verdure sorridenti. Se le difficoltà si trasformano in racconto ci sono più probabilità che smussino il loro carico di resistenza. Veniamo ora a Miriam. Nel suo ristorante non solo si mangia benissimo, si respira un’aria che non è solo piena di profumi e aromi, ma di accoglienza. Quando lei gira per i tavoli a prendere le ordinazioni compie un gesto che io trovo molto seduttivo e femminile: si siede. Con questo semplice gesto trasmette al cliente la sensazione di regalargli una cosa che non ha prezzo: il tempo. Non solo spiega cosa sono i piatti che propone. Crea un dispositivo, prima di tutto linguistico, in cui le persone si preparano a nutrirsi anche di calore. Anche questa è vendita, di cibo e del locale tutto. Sia ben chiaro che non voglio assolutamente sostenere che gli uomini non possano essere bravi venditori; non a caso ho specificato che volevo parlare degli esercizi commerciali, cioè luoghi in cui è il cliente che si muove per raggiungerli e non il venditore che viene a sua volta accolto. Mi verrebbe da usare un’immagine antropologico-sessuale legata proprio alle due specificità di vendita: l’uomo, che anche nel sesso “penetra” nella vendita lo si trova più facilmente nel ruole del venditore che entra nel territorio altrui; la donna “accogliente” aderisce meglio al ruolo di padrona di casa che apre le porte del suo territorio per far stare bene i suoi ospiti

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