A chi può interessare la storia di una anonima libraia milanese? E già mentre la formulo la domanda suona un po' falsa. Il fatto solo che la stia scrivendo, anche solo per il mio blog che pochi leggono, vuol dire che in fondo spero che a qualcuno interessi. Oltre a me naturalmente. Se non si è sinceri neanche con sé stessi a quarantaquattro anni viene il dubbio di aver imparato ben poco dal susseguirsi dei giorni. E perché scriverla? Forse per dare a me stessa la possibilità di rileggerla e di metterle la parola fine. Illusorio potere quello della scrittura, che porta a credere di poter vivere qualcosa di diverso e di poterselo levare di dosso con una parola. Ma io ci spero. O almeno spero di poter concludere materialmente qualcosa che, dentro di me, si è già concluso. E si trascina stancamente, senza più voglia ed entusiasmo.
Era novembre del 1989. Decisi che volevo lavorare in libreria. Devo fare uno sforzo per cercare di ricordare cosa esattamente mi aspettassi da questo lavoro. Fatto sta che dopo solo una settimana dall'invio di qualche curricula mi rispose una libreria di Via Dante. La facilità con cui avevo trovato lavoro avrebbe dovuto mettermi in guardia sul lavoro stesso. E invece non ci badai. Pensai che il mio destino fosse talmente chiaro che non potevo non trovare quello che desideravo. Invece quasi subito capii che già all'epoca in libreria a lavorare entravano cani e porci. Nessun contratto ovviamente e una paga di 5000 lire l'ora, che diventavano ben 7000 per gli straordinari e i festivi. Come ultima arrivata non dovevo fare altro che aprire scatoloni e fare spunte. Anche la sistemazione dei libri a scaffale doveva essere fatta dal commesso più esperto. La domenica mi limitavo a fare l'antifurto umano davanti alla porta di ingresso, dare vaghe informazioni senza muovermi da dove ero. I clienti venivano serviti da chi lavorava li già da un po' e sapeva come muoversi. Nel giro di poco tempo sarei diventata anch'io esperta in quel difficilissimo lavoro. Quando poi mi fu dato il permesso di fare addirittura cassa ebbi anche l'ingenuità di provare un po' di orgoglio.
Quando i proprietari del negozio aprirono un'altra libreria in Via Torino fui trasferita con l'improbabile incarico di responsabile di negozio. Il titolare mi fece un discorso che voleva essere motivante, prospettandomi addirittura una entrata in società. Il tutto sempre senza neanche assumermi. Il problema è che ci credevo e mi divertivo. La libreria era da allestire. E devo dire che, sebbene massacrante, fu un lavoro appassionante. Vedere il negozio che prendeva forma poco a poco dava quasi un senso di onnipotenza. mancava solo che il padrone ci radunasse per dirci: "Ragazzi, qui si fa la storia." E io ci avrei creduto. La paga era aumentata: 6000 lire all'ora di base che diventavano ben 8000 nei festivi. E sempre nessun contratto. Il negozio venne inaugurato e per i primi mesi funzionò anche bene. Poi si assestò in una dignitosa stasi. La paga era sempre quella. I titolari tenevano anche alcuni tavoli di vendita sotto un tendone ai piedi del Duomo. La ragazza che ci lavorava come responsabile era una brunetta molto carina e disinvolta. Seppi che veniva pagata più di me per meriti extra lavorativi conferitigli dal capo. Se dico questo non è per la solita rivalità femminile, ma semplicemente perché la cosa non veniva neanche resa misteriosa da un po' di discrezione. Mi licenziai all'istante senza neanche avere firmato mai un contratto.
Continua...
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