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giovedì 15 aprile 2010

Il bisogno di scrivere

Quando la chiacchierata con un amico diviene occasione per riflettere e riflettere ancora

L'altro giorno un amico mi ha chiesto: «Ma insomma, questo tuo rapporto con la scrittura è una malattia o è qualcosa che ti fa star bene?!. Lì per lì non mi sono accorta che quella questione stava entrando nel mio cervello e che ci sarebbe rimasta per un tempo ben più lungo di quello necessario a formulare la risposta. Ho continuato a fare il mio lavoro, ma qualcosa mi distraeva più del solito. Poi sono arrivata a casa e mi sono resa conto che a scavarmi dentro era una semplice letterina. Quella “o” usata dal mio amico rimbalzava tra le mie sinapsi reclamando attenzione. Finalmente ho capito che la risposta che avrei dovuto dare poteva ricalcare le stesse esatte parole del mio amico ma con una minuscola differenza: la scrittura per me è una malattia e mi fa star bene. Quella “o” doveva essere sostituita da una “e”. Mi verrebbe da dire che la sfumatura è semplicemente un abisso.

Come può una malattia far stare bene? Hai presente quando una febbre non troppo forte ti consente di non andare al lavoro pur non mettendoti del tutto fuori gioco? Non è quasi languido startene a letto a leggere, e a bere un tè caldo? Oppure sdraiarti sul divano a fare un po' di famigerato zapping? Scrivere per me è questo. È la malattia dell'illusione che aiuta a costruirsi un'alternativa a un lavoro che non piace più; malattia dell'alibi per non fare cose che non ci divertono («No sai, verrei a bere un aperitivo ma devo scrivere...»); giustificazione agli occhi del mondo per una misantropia che in realtà non si avrebbe neanche più voglia di giustificare. Presa di distanza da un immediato talora troppo invasivo. Calvino ha scritto parole insuperate riguardo alla necessità di una scrittura che eviti la visione diretta delle cose.

La magia delle parole. Allora le parole aiutano una messa a fuoco più precisa, inducono a un respiro più profondo. Vestono i pensieri di abiti meno affrettati. Ho sempre avuto un gran rispetto, anzi direi proprio un amore folle per la parola scritta. Per la parola ben scritta. Isaac Babel diceva che non c'è ferro capace di colpire un cuore più di un punto messo al posto giusto. La scrittura è mestiere in questo senso. Per qualunque motivo mi trovi a immergermici, affronto la fatica del vero e proprio lavoro. Forse perché nella mia vita avrei voluto darle uno spazio ben diverso, le dedico quelle attenzioni miste di amore e senso di colpa che, per esempio, dedicano ai figli i genitori separati. Ma spesso accade che ciò che più amiamo sia anche ciò cui riusciamo a dedicare meno tempo. Ancora una volta trovo conforto nelle letture fatte e, a tal proposito consiglio di leggere Il mestiere di scrivere di Raymond Carver. Davvero formative le pagine in cui racconta le condizioni in cui spesso scriveva; tra figli urlanti, ore strappate al sonno, nei posti più disparati e disperati. Eppure, nonostante, o forse proprio per questo, non ha mai smesso di rileggere e riscrivere. In un continuo lavoro di cesello. La scrittura è un mestiere quotidiano. Che ci dia da vivere, che sia una passione o, semplicemente qualcosa a cui talvolta si deve ricorrere, non dovrebbe essere affidata all'estemporaneità di due righe messe in fila. Qualunque altra attività richiede allenamento, gavetta, esperienza, dedizione e regole. Spesso quest'ultimo aspetto viene vissuto come una gabbia, come qualcosa che non ha niente a che fare con lo scrivere. Come se questo mestiere uscisse impoverito da norme, regole e motivi. Non sono mai stata anarchica nella mia vita e non lo sono neanche rispetto alla scrittura. Il bisogno che ho sempre avvertito di scrivere non mi si è mai presentato come qualcosa di disordinatamente sregolato.

Come si scrive e si legge. Ricordo spesso con grande affetto e ammirazione il mio professore di filosofia del liceo. Usava sempre dire che la vita è semplice. Il difficile è semplificarla. Io ho dato, ogni giorno della mia vita, una lettura molto rigorosa a queste parole. E le ho lette come un monito al duro lavoro per raggiungere la semplicità e la spontaneità. La spontaneità non è qualcosa di innato. Anche se sembra un ossimoro non esiste spontaneità senza regole. Basta vedere la volgarità di chi pensa di poter fare l'attore solo perché ha partecipato a qualche reality. E invece la leggerezza di alcune interpretazioni di attori che hanno sudato lacrime e sangue nelle scuole di arte drammatica. Perché con la scrittura dovrebbe essere diverso? Il mio bisogno di scrivere è sempre andato di pari passo con il mio bisogno di leggere. Non sono mai riuscita a considerare disgiunte le due cose. Indipendentemente da ciò che ho poi davvero scritto o abortito in qualche cassetto, sono sempre stata consapevole degli strati di bellezza che i libri andavano accumulando nella mia testa, senza paura di trovarmi a usare parole non mie ogni qualvolta mi mettevo a scrivere qualcosa.

Siamo sempre in debito con qualcuno. Harold Bloom scrisse un libro splendido sull'argomento, intitolato L'angoscia dell'influenza. Racconta come la paura, conscia o inconscia, di essere influenzati da altri scrittori, per giungere a una malintesa e inutile originalità, porti a un impoverimento della letteratura stessa. È impossibile non essere influenzati da chi ha scritto prima di noi. Quindi è importante saper leggere per arrivare a saper scrivere. Non è solo una questione di grammatica, si tratta proprio di assorbire quelle regole sottese a ogni testo. Che non impoveriscono il bisogno di scrivere, né gli tolgono quello slancio incontenibile che spesso avverto. Questo almeno per quanto riguarda la forma, non meno importante della sostanza. Riuscire a scrivere un libro, un racconto o un articolo è qualcosa che nessun testo può insegnare. Questo è qualcosa che fa parte di un altro registro. Per quanto mi riguarda si tratta di mettere una sorta di cornice ai pensieri, o se vogliamo, come inserire un contrappunto di silenzio alle note di una musica. Insomma una sorta di pausa attiva. Nella mia vita poi la scrittura ha rivestito un ruolo di post it. Una sorta di memento, tanto più trascurato quanto più avvertito come urgente. Come se il mio lavoro di libraia, che dura da ventidue anni e che doveva essere solo una manovra di avvicinamento a un altro modo di vivere nei libri, abbia finito con il diventare una sorta di preservativo a un desiderio che non riuscivo a soddisfare. Allora ho continuato, sempre più stancamente per la verità, a vendere le storie altrui. Rigirandomi tra le mani questi oggetti cartacei, pensando e nello stesso momento impedendomi di pensare a un progetto diverso.

Ma le parole trascinano. Non è possibile vivere in mezzo ai libri per così tanti anni senza lasciarsi travolgere dalle storie. Che richiamano la lettura di altre storie ma anche un desiderio di interloquire a nostra volta con storie nostre. In un continuo dialogo a distanza di tempo e spazio con altri autori.

Il bisogno di scrivere sembra riguardare molte persone. Che si tratti di romanzi, di racconti, di poesie, di post sui social network, ciò che appare evidente è una marea montante di bisogno di dire. I social network meritano considerazioni a parte. Non è questa la sede. Ma la produzione libraria sembra indicare uno strabordante desiderio di scrivere e condividere. Mi sembra necessario fare una precisazione: do per scontato che la scrittura di cui si parla qui, indipendentemente dalla qualità, abbia come denominatore comune un sincero sottofondo di condivisione. La mercificazione è altra cosa, ma ci arriveremo tra poco. Anzi, arriviamoci subito. Da libraia posso dire che mi trovo d'accordo con Ricci che, in forma di favola, sostiene che la ricerca spasmodica per costruire un best seller abbia in realtà prodotto una serie infinita di un libro sempre uguale. La ricerca di elementi accattivanti per il lettore produce una uniformità di forme e modi. Ritengo che questo dipenda dalla tendenza alla spettacolarizzazione della letteratura. Uso questo termine con circospezione perché sappiamo che la letteratura è altro. Diciamo allora produzione letteraria.

Leggere è difficile tanto quanto scrivere. Se c'è sciatteria anche in chi dovrebbe leggere per lavoro, se il criterio principale è il tornaconto economico (importante per carità, nessuno lo disconosce), ciò che arriva alle stampe non può che assomigliare e rispondere a un unico copione. Se la letteratura, la scrittura, riflettono la società in cui si vive, non c'è da sorprendersi se l'offerta ricalca quella che sembra essere la domanda dei più: evasione, conferma delle proprie idee. Nessuno scossone, nessuna sorpresa neanche nei libri. Le eccezioni ci sono per fortuna, ma sono eccezioni appunto.

Nel mondo della scrittura sembra prevalere la cultura del bigino. Mi accorgo che sto invecchiando perché comincio a fare discorsi nostalgici sulla letteratura e sull'editoria di un tempo. Credo però che davvero la visibilità sia stato un virus che ha cominciato tempo fa a minare ciò che doveva essere la peculiarità della comunicazione scritta. Da qui la tendenza a pensieri rimasticati, nozioni riassunte e passaggi televisivi. La faccia, bella o brutta di chi scrive, in televisione si conquista credibilità in dieci minuti.

Viva la televisione. Sono grata, come libraia, a trasmissioni che hanno ricadute sulle vendite. I tempi cambiano, per carità, e i mezzi e i modi per veicolare un messaggio evolvono ogni istante. Talvolta però penso alla fatica di noi librai per esporre un libro, leggerlo, parlarne. Tirarlo fuori dalle scatole, trovargli una collocazione significa un po' affezionarglisi. E spesso lo si deve rimettere, invenduto, nelle scatole destinate alle rese. Poi arriva un'intervista proprio allo scrittore di quel libro e tutti a riversarsi in libreria perché ne ha parlato la televisione. E un libraio si sente inutile. E forse un po' lo è. Ma non può non lasciarmi un certo amaro in bocca il pensiero di un mestiere di leggere-scrivere-vendere che dovrebbe vivere di sottrazione. Rigore, precisione e sottrazione. Soprattutto sottrazione di sé. E penso a Bobbi Bazlen, grande lettore, fondatore della casa editrice Adelphi, scopritore di veri talenti e perle letterarie. Aveva i cassetti stracolmi di pensieri, considerazioni, riflessioni, indicazioni editoriali e letterarie. Non ha mai pubblicato nulla e nell'ambiente letterario dei tempi, con vero rispetto e nessuna ironia, veniva considerato il più grande non scrittore. Solo anni dopo la sua morte, Roberto Calasso ha pubblicato alcuni suoi scritti. Ne consiglio davvero la lettura; sono una lezione di cultura, umiltà, amore per i libri e per lo scrivere. Fidatevi per una volta del consiglio di una libraia. Anche perché Bazlen è morto e in televisione non ci andrà mai.

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