Lasciata l'Einaudi vinco una mia naturale tendenza a negarmi i pensieri più folli. Oddio non sto parlando di chissà cosa. Siamo sempre nell'ambito librario. Decido di mandare un curriculum in Feltrinelli. Conoscevo la libreria di Via Manzoni. Ci andavo due volte alla settimana prima di recarmi a lezione di inglese al British Council che si trovava a pochi metri. Giravo, guardavo i libri e i librai. Li guardavo lavorare e mi sembrava che sapessero bene cosa fare. Mi sembravano orgogliosi del loro badge, appuntato alle camice che li identificavano come librai Feltrinelli. Mi sembrava che avessero un ruolo. Forse in quel momento ho imboccato una strada sensa uscita: ho cominciato a pensare che il mio destino fosse proprio la libreria. Pensavo che nel mio dna ci fosse questo mestiere. E ho cominciato a sovrapporre quello che facevo a quello che ero. Ecco il problema: ho cominciato a pensare di essere una libraia. Insomma mando il curriculum e dopo un paio di settimane vengo convocata per un colloquio. Parlo con Romano Montroni, allora leader maximo delle librerie Feltrinelli e con Valerio Giuntini, direttore della sede di Via Manzoni e, allora, erede designato di Montroni. Un'ora di colloquio e poi niente. Nessuna risposta. Passo i giorni aspettando una telefonata. Ma il sogno feltrinelliano non doveva essere realizzato. Non a quel punto. Una domenica vado a Belgioioso a vedere una delle prime edizioni della Mostra del piccolo editore. Ne avevo scoperto l'esistenza perché all'epoca studiavo all'università di Pavia e facevo visita, tutti i giorni, ad un libraio della città che ne aveva attaccato in vetrina il volantino. Devo dire che da questo libraio ho trascorso forse più ore che in aula. Mi regalò una copia del Procuratore della Giudea dicendo: "Si vede che ami tanto i libri, si capisce da come li tocchi." A Belgioioso conosco Gerardo Mastrullo, direttore della libreria Garzanti che, in quegli anni era in Galleria Vittorio Emanuele. Ora non c'è più, già da un po'. Era stata sostituita da un negozio di cravatte. Non so se sia ancora così. Iniziamo a parlare e ci salutiamo con la promessa di andarlo a trovare in negozio. Per farla breve inizio a lavorare in Garzanti. Sempre in nero naturalmente. E anche in questo caso non mi tocca lavorare nella sede principale ma in quella defilata e sfigata di Via Meravigli. Sono ancora troppo giovane e troppo piena di entusiasmo. Quel lavoro mi piace. Imparo e mi impegno. Sempre. La gioia di sostituire per una settimana una collega in ferie e una settimana nella sede in Galleria. Quella era una signora libreria e io sono una spugna di curiosità che assorbe tutto: titoli, editori, autori. Ma la settimana finisce e devo tornare nelle retrovie. E di contratto non se ne parla. Gerardo Mastrullo resta uno dei personaggi più inquietanti incontrati nella mia non breve carriera. Basso, con le punte dei piedi rivolte verso l'interno che, unite a un sedere basso e non piccolo, gli conferiva una camminata da pennuto. Lo si sarebbe detto un pupazzo bonaccione. Ma se si prendeva la briga di alzare lo sguardo e di guardargli il viso si notava un perenne sogghigno a mala pena nascosto dalla barba. E due occhietti sfuggenti e a fessura che lasciavano trasparire qualcosa di ambiguo. Aveva un tono di voce basso, mellifluo e monotòno. Quello che ha usato per un anno per farmi credere che sarei stata presto assunta. Invece per un anno ho lavorato tutti i giorni, tutto il giorno con la mia bella ritenuta d'acconto. Però venivo pagata ogni tre mesi perché così potevano sostenere che fosse una prestazione occasionale. Ma a me quel lavoro continuava a piacere. Ero giovane e pensavo che fosse una inevitabile gavetta. E intanto continuavo a imparare. Senza scuole o corsi di formazione, ma a suon di fatica e ore e ore passate in negozio. Il problema è che in via Meravigli, in quella libreria dimenticata da dio e, quasi, dagli uomini passavo tante ore da sola. E cominciavo ad annoiarmi. Un giorno sul Corriere della Sera leggo questo annuncio: "Catena di librerie cerca responsabile del settore di varia. Con esperienza." È la volta buona mi dico. Si ricomincia. Rispondo all'annuncio, faccio il colloquio e per la prima volta nella mia vita vengo regolarmente assunta. Terzo livello del contratto del commercio. Guardo e riguardo il mio primo contratto. Nessun incarico da responsabile in realtà ma, vabbè, una piccola bugia ma c'è l'assunzione regolare. E il virus della fregatura continua la sua strada. È il 1993 e approdo al Libraccio. Cinque anni di lavoro matto e disperatissimo. Per la prima volta lavoro con un vero gruppo di persone e il concetto di microcosmo lavorativo farà la sua comparsa nella mia vita.
Continua...
Prima nella rete, poi sulla strada, questa bottega vuole essere una specie di consigliera editoriale. Via dalle classifiche ufficiali e dalle vendite pilotate. Libri introvabili, fuori catalogo o, comunque, difficili da recuperare
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venerdì 19 novembre 2010
mercoledì 17 novembre 2010
Una storia lunga vent'anni e più III puntata
E qui cominciano le prime crisi. Perché comincio anche ad ascoltarmi e a capire, seppur confusamente che il mio vero desiderio era sì quello di lavorare tra i libri ma dall'altra parte. Cioè in una casa editrice. Il mio passaggio in libreria avrebbe dovuto essere una manovra di avvicinamento provvisoria. E poi, purtroppo è diventata definitiva. Ogni mio tentativo di uscire dal negozio si scontrava con il silenzio delle persone a cui chiedevo aiuto o con il loro presunto non poter far nulla per aiutarmi. Il mondo dell'editoria per me è stato una lunga sequenza di no grandi come muri. Invalicabili. Pensate che anche il buon Cerati, mitico presidente dell'Einaudi, ha sostenuto di non poter far nulla per farmi lavorare in una casa editrice. E non è che volessi fare chissà cosa. Disposta da sempre a fare qualunque tipo di lavoro e di gavetta. Niente. E il defunto Alessandro Gennari, scrittore e critico letterario, autore tra l'altro di un libro pubblicato con Einaudi insieme a De Andrè, si è aggiunto alla lista degli arrivati ma impotenti. Anche solo trovarmi un posto come correttrice di bozze era per lui impossibile. Eppure quando veniva in libreria chiedeva lo sconto e, in nome di non si sa quale amicizia, veniva sempre accontentato. È morto con tre libri pubblicati, uno da Garzanti, uno da Einaudi e uno da Piemme. Ricordo che pochi giorni dopo avergli chiesto un lavoretto come correttrice di bozze magari proprio alla Piemme ed essermi sentita dire che non c'era nessuna possibilità, vengo a sapere che quell'editore aveva fatto addirittura un annuncio sui giornali per assumere collaboratori. Io l'annuncio l'ho trovato troppo tardi. Anche quel treno era passato. Io continuo a spedire curricula, nessuna risposta o risposte tutte uguali. Mi dicono che bisogna avere delle conoscenze ma quelle che ho non servono. Non so ancora come ma, da sola, riesco a trovare un lavoro alla Giunti Multimedia. Si tratta di scrivere una serie di guide alle città rivolte agli studenti. Budget basso e informazioni mirate. Il tutto da pubblicare sotto forma di cd rom. Il lavoro mi piace, lo posso fare da casa secondo i miei ritmi. Quando finisco i vari moduli spedisco tutto via mail. Mi piace. Il mio lavoro viene apprezzato e pagato con ammirevole solerzia. Purtroppo era occasionale. Il mio interlocutore mi assicura che qualora avessero ancora bisogno chiameranno di sicuro me. Le cose andranno diversamente. Non li sento più fino a quando mi chiamano ma io ero appena stata assunta dalla Feltrinelli. In libreria ovviamente. E lavorando dieci ore e mezza al giorno in bottega ho dovuto dire no alla Giunti. Ma questo è un disordinato salto temporale. Prima della Feltrinelli è successo altro. Compreso un piccolo lavoro di correzione di bozze, trovato sempre da sola, presso l'editore SE. Trovato, fatto, pagato e finito. Ma torniamo in libreria. Lasciata l'Einaudi sta per arrivare la Garzanti.
Siccome continuo ad essere una stupida illusa, che ha visto troppi film e letto troppi libri, non riesco ad impedirmi di immaginare questa evoluzione: un editore legge il mio blog e decide di offrirmi qualche lavoretto; un altro mi propone di pubblicare le mie esperienze in libreria. Siamo onesti: chi non ha mai sperato che un blog possa funzionare anche come agenzia di collocamento? Perché rendere pubblico qualcosa se non si spera, in fondo, di ricavarne qualcosa? Davvero solo un nobile e non richiesto spirito di condivisione? Ma andiamo. Allora anch'io, nei giorni in cui non lavoro in negozio, mi prefiguro speranze e radiosi futuri. Alibi per i giorni in libreria aspettando solo che passino. Tra libri inutili e clienti che, senza altra colpa che quella di essere clienti, sono diventati solo un'intrusione nel mio spazio vitale, sogno una scena madre in cui dopo un urlo abominevole me ne vado. Prendo il mio treno per la Tuscia e faccio i lavori che mi piacciono. E riavvolgo i libri di quell'amore che non ho mai perso per loro ma che è stato offuscato da quel contorno commerciale che non mi appartiene più.
Siccome continuo ad essere una stupida illusa, che ha visto troppi film e letto troppi libri, non riesco ad impedirmi di immaginare questa evoluzione: un editore legge il mio blog e decide di offrirmi qualche lavoretto; un altro mi propone di pubblicare le mie esperienze in libreria. Siamo onesti: chi non ha mai sperato che un blog possa funzionare anche come agenzia di collocamento? Perché rendere pubblico qualcosa se non si spera, in fondo, di ricavarne qualcosa? Davvero solo un nobile e non richiesto spirito di condivisione? Ma andiamo. Allora anch'io, nei giorni in cui non lavoro in negozio, mi prefiguro speranze e radiosi futuri. Alibi per i giorni in libreria aspettando solo che passino. Tra libri inutili e clienti che, senza altra colpa che quella di essere clienti, sono diventati solo un'intrusione nel mio spazio vitale, sogno una scena madre in cui dopo un urlo abominevole me ne vado. Prendo il mio treno per la Tuscia e faccio i lavori che mi piacciono. E riavvolgo i libri di quell'amore che non ho mai perso per loro ma che è stato offuscato da quel contorno commerciale che non mi appartiene più.
martedì 16 novembre 2010
Una storia lunga vent'anni e più II puntata
E così, dopo nove mesi dal primo impiego in nero, partorisco un licenziamento in nero. Quella che sarebbe stata la decisione più saggia e cioè dimenticare il lavoro in libreria, purtroppo dura poco. Durante una delle mie passeggiate pigre per Milano entro nella libreria Einaudi che allora stava in Galleria Manzoni. Una libreria bellissima, un luogo magico pieno di storia e libri. Ma libri veri, libri importanti. tanti, tantissimi libri. Un catalogo che conoscevo dalle mie letture. E un nome, Einaudi, che mi faceva tremare le vene. Due piani di pagine, con i passi resi ovattati da una specie di moquette, i mobili scuri e gli occhi a lottare con una luce resa troppo forte dal buio esterno. Mi sembrava di essere su un palcoscenico. Chiedo se posso lasciare il mio curriculum e mi viene detto di portarlo nella sede di Via Goito al signor Piero, responsabile ad interim dei due negozi. Mi precipito nella via che ospita il famoso e famigerato liceo Parini. E trovo una deliziosa bottega, una libreria a forma di libreria, con soppalco e saletta che da su un cortiletto silenzioso. Il germe dell'illusione si insinua dentro di me subdolo e suadente. Parlo con questo Piero, un uomo piccolo, con una gran barba e due occhi nerissimi e inquieti. Scoprirò solo dopo quanto sia seria quell'inquietudine. Insomma inizio a lavorare per l'Einaudi. Anche qui tante belle parole, tanti bei propositi e nessun contratto. L'altra fregatura era l'orario di lavoro. Dal momento che il negozio era, come dicevo, davanti ad una scuola, faceva anche servizio di cartoleria e doveva aprire prima dell'ingresso in aula degli studenti; cioè alle 7 e 15. Quindi io avrei lavorato li e non nella sede principale, dalle 7 e 15 alle 15 e 30. Da sola. Il mio maestro si rivelava ogni giorno di più un uomo pieno di seri problemi, di sbalzi d'umore leggermente sopra le righe. Un uomo buonissimo ma fatto a pezzi da una brutta forma di schizofrenia. Momenti di lucidità in cui mi insegnava un mestiere si alternavano ad altri fatti di discorsi deliranti e, per me, ingestibili. Il negozio lavorava pochissimo. Io in pratica ero ridotta a fare la cartolaia che vendeva fogli protocollo per i compiti in classe dei figli della buona borghesia, penne e, qualche volta, classici latini e greci. L'unico momento in cui mi divertivo era quando, con la bici, portavo i libri a casa di Milva, la cantante, che era una cliente. E quando potevo lavorare qualche ora nella sede principale. Per il resto era una sensazione di angoscia ogni mattina. Parlai con Piero e gli dissi che volevo andarmene. La reazione fu piuttosto scomposta. Appena ritrovata un po' di calma mi disse che aveva già fissato un appuntamento con l'allora direttore commerciale dell'Einaudi per farmi assumere. Era una bugia solo a metà. L'appuntamento c'era davvero ma il contratto di cui si parlò fu quello a ritenuta d'acconto. Ricordo il colloquio quel giorno: io, Piero e il direttore commerciale l'un contro l'altro armati. Io piena di rancore per una promessa falsa, il direttore incazzato nero con Piero per aver raccontato una balla e Piero che stava per piombare in uno dei suoi viaggi lontani e imprendibili.
Una sera il direttore commerciale indisse una riunione nella libreria di Galleria Manzoni. La situazione stava diventando preoccupante, fu l'unica cosa che mi venne anticipata. Quando arrivai capii che la riunione era in realtà un processo a Piero che, ovviamente era assente. Fu dichiarata con ben poca sensibilità la sua malattia e l'intenzione dell'azienda di allontanarlo. Il direttore commerciale parlando di lui non lo chiamava mai per nome ma con l'epiteto di pazzo. Come io abbia fatto a resistere un anno in quel posto lo sa solo dio. Forse ero pazza anch'io. Però avevo cominciato ad imparare un mestiere grazie al pazzo. Me ne andai e non seppi più nulla di lui. Anni dopo lo incontrai alla presentazione di un libro di Verdiglione. Mi sembrava disperato e completamente perso. Gli occhi rossi e nervosi. Mi vide ma si girò dall'altra parte e sparì. Si era conclusa anche la mia avventura in quello che sembrava essere il tempio della cultura.
Una sera il direttore commerciale indisse una riunione nella libreria di Galleria Manzoni. La situazione stava diventando preoccupante, fu l'unica cosa che mi venne anticipata. Quando arrivai capii che la riunione era in realtà un processo a Piero che, ovviamente era assente. Fu dichiarata con ben poca sensibilità la sua malattia e l'intenzione dell'azienda di allontanarlo. Il direttore commerciale parlando di lui non lo chiamava mai per nome ma con l'epiteto di pazzo. Come io abbia fatto a resistere un anno in quel posto lo sa solo dio. Forse ero pazza anch'io. Però avevo cominciato ad imparare un mestiere grazie al pazzo. Me ne andai e non seppi più nulla di lui. Anni dopo lo incontrai alla presentazione di un libro di Verdiglione. Mi sembrava disperato e completamente perso. Gli occhi rossi e nervosi. Mi vide ma si girò dall'altra parte e sparì. Si era conclusa anche la mia avventura in quello che sembrava essere il tempio della cultura.
Una storia lunga vent'anni e più
A chi può interessare la storia di una anonima libraia milanese? E già mentre la formulo la domanda suona un po' falsa. Il fatto solo che la stia scrivendo, anche solo per il mio blog che pochi leggono, vuol dire che in fondo spero che a qualcuno interessi. Oltre a me naturalmente. Se non si è sinceri neanche con sé stessi a quarantaquattro anni viene il dubbio di aver imparato ben poco dal susseguirsi dei giorni. E perché scriverla? Forse per dare a me stessa la possibilità di rileggerla e di metterle la parola fine. Illusorio potere quello della scrittura, che porta a credere di poter vivere qualcosa di diverso e di poterselo levare di dosso con una parola. Ma io ci spero. O almeno spero di poter concludere materialmente qualcosa che, dentro di me, si è già concluso. E si trascina stancamente, senza più voglia ed entusiasmo.
Era novembre del 1989. Decisi che volevo lavorare in libreria. Devo fare uno sforzo per cercare di ricordare cosa esattamente mi aspettassi da questo lavoro. Fatto sta che dopo solo una settimana dall'invio di qualche curricula mi rispose una libreria di Via Dante. La facilità con cui avevo trovato lavoro avrebbe dovuto mettermi in guardia sul lavoro stesso. E invece non ci badai. Pensai che il mio destino fosse talmente chiaro che non potevo non trovare quello che desideravo. Invece quasi subito capii che già all'epoca in libreria a lavorare entravano cani e porci. Nessun contratto ovviamente e una paga di 5000 lire l'ora, che diventavano ben 7000 per gli straordinari e i festivi. Come ultima arrivata non dovevo fare altro che aprire scatoloni e fare spunte. Anche la sistemazione dei libri a scaffale doveva essere fatta dal commesso più esperto. La domenica mi limitavo a fare l'antifurto umano davanti alla porta di ingresso, dare vaghe informazioni senza muovermi da dove ero. I clienti venivano serviti da chi lavorava li già da un po' e sapeva come muoversi. Nel giro di poco tempo sarei diventata anch'io esperta in quel difficilissimo lavoro. Quando poi mi fu dato il permesso di fare addirittura cassa ebbi anche l'ingenuità di provare un po' di orgoglio.
Quando i proprietari del negozio aprirono un'altra libreria in Via Torino fui trasferita con l'improbabile incarico di responsabile di negozio. Il titolare mi fece un discorso che voleva essere motivante, prospettandomi addirittura una entrata in società. Il tutto sempre senza neanche assumermi. Il problema è che ci credevo e mi divertivo. La libreria era da allestire. E devo dire che, sebbene massacrante, fu un lavoro appassionante. Vedere il negozio che prendeva forma poco a poco dava quasi un senso di onnipotenza. mancava solo che il padrone ci radunasse per dirci: "Ragazzi, qui si fa la storia." E io ci avrei creduto. La paga era aumentata: 6000 lire all'ora di base che diventavano ben 8000 nei festivi. E sempre nessun contratto. Il negozio venne inaugurato e per i primi mesi funzionò anche bene. Poi si assestò in una dignitosa stasi. La paga era sempre quella. I titolari tenevano anche alcuni tavoli di vendita sotto un tendone ai piedi del Duomo. La ragazza che ci lavorava come responsabile era una brunetta molto carina e disinvolta. Seppi che veniva pagata più di me per meriti extra lavorativi conferitigli dal capo. Se dico questo non è per la solita rivalità femminile, ma semplicemente perché la cosa non veniva neanche resa misteriosa da un po' di discrezione. Mi licenziai all'istante senza neanche avere firmato mai un contratto.
Continua...
Era novembre del 1989. Decisi che volevo lavorare in libreria. Devo fare uno sforzo per cercare di ricordare cosa esattamente mi aspettassi da questo lavoro. Fatto sta che dopo solo una settimana dall'invio di qualche curricula mi rispose una libreria di Via Dante. La facilità con cui avevo trovato lavoro avrebbe dovuto mettermi in guardia sul lavoro stesso. E invece non ci badai. Pensai che il mio destino fosse talmente chiaro che non potevo non trovare quello che desideravo. Invece quasi subito capii che già all'epoca in libreria a lavorare entravano cani e porci. Nessun contratto ovviamente e una paga di 5000 lire l'ora, che diventavano ben 7000 per gli straordinari e i festivi. Come ultima arrivata non dovevo fare altro che aprire scatoloni e fare spunte. Anche la sistemazione dei libri a scaffale doveva essere fatta dal commesso più esperto. La domenica mi limitavo a fare l'antifurto umano davanti alla porta di ingresso, dare vaghe informazioni senza muovermi da dove ero. I clienti venivano serviti da chi lavorava li già da un po' e sapeva come muoversi. Nel giro di poco tempo sarei diventata anch'io esperta in quel difficilissimo lavoro. Quando poi mi fu dato il permesso di fare addirittura cassa ebbi anche l'ingenuità di provare un po' di orgoglio.
Quando i proprietari del negozio aprirono un'altra libreria in Via Torino fui trasferita con l'improbabile incarico di responsabile di negozio. Il titolare mi fece un discorso che voleva essere motivante, prospettandomi addirittura una entrata in società. Il tutto sempre senza neanche assumermi. Il problema è che ci credevo e mi divertivo. La libreria era da allestire. E devo dire che, sebbene massacrante, fu un lavoro appassionante. Vedere il negozio che prendeva forma poco a poco dava quasi un senso di onnipotenza. mancava solo che il padrone ci radunasse per dirci: "Ragazzi, qui si fa la storia." E io ci avrei creduto. La paga era aumentata: 6000 lire all'ora di base che diventavano ben 8000 nei festivi. E sempre nessun contratto. Il negozio venne inaugurato e per i primi mesi funzionò anche bene. Poi si assestò in una dignitosa stasi. La paga era sempre quella. I titolari tenevano anche alcuni tavoli di vendita sotto un tendone ai piedi del Duomo. La ragazza che ci lavorava come responsabile era una brunetta molto carina e disinvolta. Seppi che veniva pagata più di me per meriti extra lavorativi conferitigli dal capo. Se dico questo non è per la solita rivalità femminile, ma semplicemente perché la cosa non veniva neanche resa misteriosa da un po' di discrezione. Mi licenziai all'istante senza neanche avere firmato mai un contratto.
Continua...
martedì 2 novembre 2010
Tuscia
Oggi guidavo attraverso la campagna tusciana e ancora una volta mi sono lasciata incantare dai colori di questa terra. C'erano alberi le cui chiome, colpite dalla luce del sole, sembravano lingue di fuoco dorato che si stagliavano sulle acque scure del lago di Bolsena. Vorrei farvi sentire gli odori di questa campagna, farvene vedere i colori, assaporare i profumi di camino che escono dalle case dei paesi abbarbicati sulle colline. Non è possibile, però posso regalarvi queste letture su questa magica regione dell'alto Lazio
Cultura come difesa dall'imbecillità
Credo che questa affermazione del presidente del consiglio dovrebbe e potrebbe offendermi. Invece mi passa sopra come un inutile venticello. Però mi preoccupa. Per ciò che porta con sè, per ciò che non suscita in termini di indignazione. Certo nella rete si intrecciano commenti disgustati, battute feroci contro quelle parole pronunciate con la solita noncuranza da parte di chi pensa di potersi permettere ogni cosa. Il senso del limite, il senso della misura, merce così preziosa per una convivenza almeno civile, sembrano irrimediabilmente persi in questo paese moribondo. Del resto l'equazione diviene sempre più drammatica ed eloquente: tagli alla cultura=criminalità linguistica.
Berlusconi e la letteratura omosessuale
Raymond Carver
Continuo a pensare che leggere i racconti di quest'uomo sia una palestra essenziale per chi voglia scrivere. Che piacciano o no sono, dal punto di vista delle tecniche narrative un materiale da cui non si può prescindere. Raymond Carver e un pò della sua storia http://www.youtube.com/watch?v=oapV2DzeYBw
Vivere di scrittura
Interessante articolo su La Repubblica di oggi 2 novembre dal titolo La scrittura non paga. Diciamoci la verità, quanti di noi non vorrebbero poter vivere di questo? Dedicarsi, ai più diversi livelli, di scrittura. Ma non è facile. Le cifre sono da fame. A meno che non si raggiunga un volume di vendite che oscilli tra le 50000 e le 100000 copie. A quel punto gli anticipi pagati dagli editori possono consentire un tenore di vita più che buono. Può essere utile e divertente consultare questi siti "Scrittori precari" e "Scrittori sommersi"http://www.scrittorisommersi.com/ . La rete ha contribuito non poco ha dare almeno la speranza di una diffusione meno difficile dei propri scritti. Ma lasciare il proprio lavoro per dedicarsi totalmente al mestiere di scrivere è privilegio per pochissimi. E spesso, tra quei pochissimi, qualcuno che farebbe meglio a tornare a guadagnarsi la vita in altro modo c'è.
lunedì 1 novembre 2010
calvino e la scrittura
Lui è una continua ispirazione per chi, come me, si interessa di lingua e scrittura. Calvino e le sue inesauribili Lezioni americane sono un materiale inesaurubile di idee e riflessioni. Ascoltiamoci questa intervista
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È un film davvero illuminante per chi fa questo mestiere. Perché questo siamo anche se facciamo i librai. Anche perché non vedo nulla di ignobile in questo mestiere. Libraio è più nobile? Quando sono andata a rinnovare la carta d'identità l'impiegata mi ha chiesto che mestiere facessi. Le ho risposto, quasi con pudore, che faccio la libraia. Non so perché mi sarebbe piaciuto che comparisse sul mio documento d'identità. Che pretesa infantile, che stupido attaccarsi a un marchio di fabbrica. E infatti, allo sguardo perplesso dell'impiegata fa seguito il suo digitare sulla tastiera alla ricerca di questa parola. "Mi dispiace ma non è inserita nel database." Allora ha messo impiegata. Allora preferivo commessa. Non sono stata a chiederle se quella parola esistesse nel database. Ho avuto paura di trovare conferma del fatto che se non c'è una parola per dirlo, allora non esiste. Infatti libraio non esiste più.
È un film davvero illuminante per chi fa questo mestiere. Perché questo siamo anche se facciamo i librai. Anche perché non vedo nulla di ignobile in questo mestiere. Libraio è più nobile? Quando sono andata a rinnovare la carta d'identità l'impiegata mi ha chiesto che mestiere facessi. Le ho risposto, quasi con pudore, che faccio la libraia. Non so perché mi sarebbe piaciuto che comparisse sul mio documento d'identità. Che pretesa infantile, che stupido attaccarsi a un marchio di fabbrica. E infatti, allo sguardo perplesso dell'impiegata fa seguito il suo digitare sulla tastiera alla ricerca di questa parola. "Mi dispiace ma non è inserita nel database." Allora ha messo impiegata. Allora preferivo commessa. Non sono stata a chiederle se quella parola esistesse nel database. Ho avuto paura di trovare conferma del fatto che se non c'è una parola per dirlo, allora non esiste. Infatti libraio non esiste più.
Ho lo sconto dunque sono
Ci sono clienti che, alla casa, prima ancora di salutarti ti chiedono: "Fate sconti?" Oppure, con un sorrisino che vorrebe essere di complicità, con un tono di voce non troppo alto (per suggerire una confienza carbonara) ma neanche troppo basso da impedire che gli altri si accorgano di questo enorme privilegio chiedono: "Si ricorda che ho lo sconto vero?" E queste, per molti di loro sono le uniche modalità di relazione con il libraio. Mi suona così italiota questo modo di fare, oltre che estremamente cafone. Ma dove diavolo andrai con quell'euro che hai risparmiato da noi? O addirittura un euro e venti centesimi a volte. Li vai a mettere nelle mani di qualche mendicante per sentirti a posto con la tua anima? Oppure ti serviranno per pagare il gratta e sosta per parcheggiare il tuo suv? Ti farei pagare un caffè, quello di Don Raffaè però
Cosa leggerei oggi
Il suono della pioggia, il vento, una luce soffusa, le persiane ancora in parte abbassate. Una musica che si infila nelle pieghe di questa giornata. Non molto originale come suggestione di lettura ma, in fondo chi se ne importa dell'originalità. A me viene in mente questo libro. Un uomo senza la sua nave, senza il mare si perde per le strade del mondo. E penso a quanto sia importante sentirsi esattamente dove si vuole essere. Il senso di un'appartenenza che non imprigiona, non immobilizza. E una donna che arriva con la pioggia.
Uno sporco mestiere
Mi piace molto questo blog Le memorie di un libraio. Lo leggo con grande piacere perché mi ci riconosco in pieno. Sento così spesso parlare a sproposito del lavoro in libreria che cui vorrei che queste pagine finissero sotto gli occhi di chi con sguardo sognante dice:" Che bel lavoro che fate. Chissà quanto tempo avete per leggere in libreria." Ma cosa pensa la gente di questo lavoro? Ma cosa crede che sia? pensa davvero che ci sia cultura in quello che è diventato? E di quale cultura stiamo parlando? Di quella televisiva di Fazio? O dei siparietti finto letterari all'interno di quei disgustosi contenitori domenicali? Venite, venite parvulos a lavorare in libreria, anche solo per un mese. Così magari le parole usciranno meno ardite e melense dalle vostre bocche
Un viaggio nel viaggio
Mi piace guardare le persone quando leggono in treno. Ma non mi interessa tanto sapere cosa leggono quanto osservare come lo fanno. La posizione che assumono, come lo sfogliano. Appoggiati allo schienale del sedile, piegati sul tavolinetto di fronte a loro. Ogni tanto lo sguardo si alza dalle pagine e vaga sullo schermo del finestrino su cui le immagini corrono veloci. I gesti che precedono la lettura sono quelli che mi piacciono di più: si apre lo zaino, si estraggono gli occhiale dalla custodia, le pezzuolina per pulirli. Poi la si ripiega. Una sorsata alla bottiglietta d'acqua e le mani che cercano di recuperare la pieghina con cui si è indicato dove la lettura è stata interrotta. E il mondo intorno scompare.
Il mattino ha un libro in mano
Questa mattina mi sono svegliata alle cinque e mezza. Mi succede spesso quando sono contenta e ogni istante mi sembra un boccone appetitoso da gustare con voracità. Sono nella Tuscia, questa zona bellissima dell'alto Lazio e sono a casa della mia compagna. Piccoli frammenti di quitidianità, caffè, chiacchiere oziose e lente. I particolari assumono un'importanza dilatata dalla lentezza dei gesti. Il gatto sulla finestra, la mia compagna che si prepara un decotto alla salvia, la bottiglia di acqua sul tavolino, il tabacco, la sigaretta che si consuma lenta tra le dita. Attimi che si amplificano con una scia di sensualità. E la testa viaggia, pensa, fantastica in un tempo dilatato e fluido. C'è qualcosa di eccitante in tutto questo, quasi di fisico. Come se fossi calata in una sensazione di possibilità infinita. Respiro. E per contrasto mi vengono in mente alcuni momenti in libreria durante i quali mi sento come un criceto sulla ruota: l'illusione del movimento che si arrotola su sé stesso, che non ti fa fare neanche un passo. Allora guardo fuori dalla vetrina, cammino nervosa, evito i clienti e sfoglio un libro. Poi lo ripongo nello scaffale e ne prendo un altro. Cerco appigli tra le parole, una scialuppa di salvataggio all'inqietudine di essere dove non voglio. La libreria come gabbia. Sono brutti quei momenti. Cerco un disperato aiuto tra le pagine, lancio un urlo silenzioso a quei piccoli caratteri d'inchiostro stampati su carta. Ma ora, qui è tutto diverso. Mi lascio attraversare dal sentimento di carnalità che mi lega sempre più ai libri e sempre meno alle persone che entrano in libreria. Scarnificata, ridotta all'osso la mia voglia di relazionarmi con i clienti sento aumentare il bisogno fisico di libri. Un bacio alla mia compagna si mescola al mio naso affondato tra le pagine. E i pezzi sembrano tornare al loro posto.
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